I disastri della politica italiana, in particolare degli ultimi trent’anni, e la pesante crisi economica internazionale in tempi più recenti hanno fatto crescere in misura notevole non solo il numero di quanti sono alla ricerca di una prima occupazione ma, anche, quella fascia di cinquantenni trovatasi di punto in bianco senza lavoro, un numero di precari di cui, è bene ricordare, neanche la più odiata delle ministre come la Fornero conosceva le cifre, arrivando ad azzardarne di così riduttive da essere smentita clamorosamente dall’ex Presidente dell’INPS, risultando poi uno dei più considerevoli temi del governo Monti. I dati della disoccupazione giovanile in Italia (27.1%), nonostante un leggerissimo calo registrato, risultano tra i più alti in Europa. Peggiori del nostro Paese soltanto Grecia (33%) e Spagna (32.2%). Come giornale, dunque, abbiamo scelto di riprendere un viaggio iniziato circa due anni fa tra alcuni connazionali trasferitisi all’estero sia per scelta professionale che per l’esigenza di trovare un impiego. Prima di intraprenderlo, però – magari tornando dal più giovane intervistato, il Dott. Dario Nicetto, un ricercatore di Padova che troveremo ora a San Francisco, sua nuova sede di studio – e raccontare le esperienze di altri italiani residenti negli USA (California e Florida) o in Cina, Danimarca, isole Baleari e così via, abbiamo voluto interrogare una voce autorevole sul tema emigrazione, in particolare dei giovani: il Professore Giovanni de Simone, ordinario di Medicina Interna presso il Dipartimento di Scienze Biomediche Avanzate dell’Università Federico II di Napoli e Presidente del Council on Hipertension dell’European Society of Cardiology, nonché attento osservatore politico, che con grande disponibilità ha risposto ad alcune nostre domande.
Il tema immigrazione, come noto, ha fatto la fortuna di qualche forza politica e del suo segretario. Sembra non interessare, invece, un fenomeno di considerevoli dimensioni come l’emigrazione, in particolare dal Centro-Sud in direzione Nord Italia ed estero. I numeri furono già evidenziati dal Prof. Tito Boeri e poi certificati dall’ISTAT. Ritiene il problema allarmante oppure fisiologico?
«Il fenomeno è molto allarmante. I dati EUROSTAT mostrano che l’Italia è il Paese con il più alto grado di emigrazione. Nel 2018 sono stati più di 400mila i giovani che hanno lasciato la nazione per altre realtà europee, quasi il doppio della Francia che mantiene il più elevato tasso di migrazione tra i Paesi industrializzati del continente. Molti di questi costituiscono mano d’opera qualificata, che noi prepariamo investendo risorse e che altri Stati poi utilizzano a costo (formativo) zero. Nella realtà della Medicina, realtà che conosco particolarmente bene, Paesi come la Germania e la Svezia cercano espressamente medici italiani, prova che la nostra formazione è molto solida. Lavoriamo per gli altri».
Si parla quasi sempre della sola fuga dei cervelli ma, in realtà, sono molti i giovani che pur non avendo particolari curricula si trasferiscono al Nord o all’estero trovando collocazioni dignitose nel settore terziario. Quali i provvedimenti che dovrebbe assumere il governo per arginare questa grave emigrazione?
«Sì, è vero. La fuga dei cervelli, dei medici, dei ricercatori, riguarda il 30-40%, ma quelli che fuggono sono molti altri anche con grandi potenzialità produttive. Le racconto una storia. Era il 2012. Venne da me un ingegnere che aveva progettato e realizzato un apparecchio per eseguire elettrocardiogrammi, delle dimensioni di uno smartphone (poco più grosso) con la finalità di farlo acquistare ai pazienti (a un costo tra i 100 e i 200 euro), che avrebbero potuto eseguire da soli il controllo, guidato, e inviarlo a un centro di lettura. Io venivo chiamato come consulente con il compito di validare l’apparecchio e di valutarne l’applicabilità nei contesti indicati. Fui molto veloce, scrissi una dettagliata consulenza di 18 pagine, poco meno che entusiasta, con la quale l’inventore dell’elettrocardiografo e del sistema, dopo anni di pellegrinaggio nei meandri della nostra burocrazia, avrebbe potuto compiere gli ultimi difficili passi verso la commercializzazione. Ma non ci fu verso. A fronte della muraglia burocratica e del continuo esborso di denaro, l’ingegnere si arrese, chiuse baracca e burattini e si trasferì in Svizzera, ove ora felicemente vive con altri progetti analoghi. Il progetto abortì e io, il mio Dipartimento, ci ritrovammo con tre apparecchi miniaturizzati senza sapere più come utilizzarli dopo la sostituzione della piattaforma XP con Windows 7/8 e 10. Ecco che cosa il governo dovrebbe fare immediatamente. Facilitare le cose a chi vuole lavorare, invece di frapporre ostacoli insormontabili. Complicare la vita a chi vuole agire seriamente nel tentativo di erigere ostacoli per i farabutti è una strategia perdente perché a ogni legaccio corrisponderà sempre in questo Paese dalla fantasia fervida una scappatoia. E intanto chi vuole lavorare è costretto a scappare».
Ritiene il tema una priorità per il governo che, invece, appare troppo occupato a portare a casa il taglio dei parlamentari e a tappare le falle provocate irresponsabilmente dal precedente esecutivo, trovandosi, come in un gioco dei quattro cantoni, a dover porre un argine anche ai loro disastri?
«Non sono un politico, ma credo che questa storia del taglio dei parlamentari rispetto alle reali priorità del Paese stia a cavallo tra il comico e il tragico. Tuttavia, la cosa più dolorosa per una persona dichiaratamente e fieramente di sinistra come ritengo di essere, è vedere il PD in balia di figure improbabili. So che dietro tutto questo non c’è la voglia di poltrone (conosco molti esponenti di rilevo del Partito Democratico e sono sicuro di quel che dico), ma la maturazione di una responsabilità nei confronti del Paese che non potrebbe essere mediata da altri. Però, il rischio di alienare il consenso elettorale fin qui mantenuto e riconquistato è molto grande. Dire che persone come Zingaretti o Bersani o Epifani non si rendano conto di quali siano le reali priorità del Paese fa offesa all’intelligenza. Credo, piuttosto, che dovranno mettere un limite alle giocate del M5S e prima o poi dovranno andare a vedere le carte per capire se Di Maio ha veramente il punto in mano o sta bluffando, se mi è consentita una metafora pokeristica. Come ho già scritto, penso che accettare la chiamata del M5S sulla riduzione dei parlamentari senza le dovute e concrete garanzie sull’assetto costituzionale e sulla legge elettorale, sia una giocata disastrosamente perdente per il PD e per il Paese e mette a rischio la nostra già fragile democrazia parlamentare, ancor più delle sparate di Salvini. Il PD dovrebbe imporre la sua agenda di priorità e guidare il negoziato con i suoi alleati di governo su cose che non snaturino le posizioni storiche di cui è erede e portatore. Altrimenti si suicida».
Ancora oggi, in Italia la ricerca appare incapace di trattenere i giovani che in numero significativo trovano buone collocazioni in alcuni Paesi europei e prevalentemente negli Stati Uniti. È soltanto una questione di risorse o altro?
«È una questione di risorse, di infrastrutture e di etica. Le dico questo: sono arrivato negli USA contemporaneamente all’erogazione di uno stanziamento di ricerca (grant) da parte dell’NIH di 15 milioni di dollari per uno studio sul rischio cardiovascolare nei nativi indiani americani, coinvolgente 13 tribù disseminate in 3 Stati (lo Strong Heart Study). Una cifra impossibile da immaginare in Italia, ma anche in Europa. Con quei soldi fu messa in piedi una poderosa infrastruttura, includente camper attrezzati con moderne tecnologie che cominciarono a girare i territori indiani per raccogliere i dati necessari. Un’infrastruttura che ha procurato lavoro a tantissime persone e che ha prodotto risultati incredibilmente importanti, ben in anticipo rispetto a quanto oggi si studia e si conferma in altre realtà etniche, inclusa quella caucasica. Sono trent’anni che si lavora alacremente su quel progetto che è stato poi rinnovato molte volte. Ma la cosa interessante è che quello stesso progetto ha anche creato un poderoso indotto infrastrutturale. Soldi, quindi, che significano non solo generazione di nuove conoscenze attraverso ricerca di qualità elevata, ma anche infrastrutture e posti di lavoro, per la maggior parte occupati da indiani americani, un loop molto virtuoso. E poi c’è l’aspetto delle gratificazioni per i ricercatori. Intanto, da noi si accede alle risorse in modo non trasparente, attraverso canali non sempre legittimi, almeno a Medicina (credo che nelle altre realtà sia un po’ diverso). E poi il merito individuale è costantemente annichilito da altre logiche, non solo nepotistiche, ma di cordata. Il nostro sistema concorsuale e il modo con cui vengono utilizzati gli indicatori bibliometrici completa questa mortificazione, abbassando il livello della ricerca perché i ricercatori in cerca di promozione vogliono la pubblicazione facile e rapida, favoriti anche dall’inflazione impressionante di giornali che nessuno legge (molti cinesi e indiani) che reciprocamente alimentano la lievitazione degli indicatori bibliometrici. Negli USA, una promozione viene fatta sulla base del prestigio conquistato, prestigio che può essere altissimo anche con un solo lavoro pubblicato e, specialmente, sulla base delle lettere di raccomandazione di leader riconosciuti. Ho scritto diverse lettere di raccomandazione in America per favorire la promozione di colleghi più giovani ogni volta che mi è stato chiesto, spesso direttamente dalle istituzioni, sempre dicendo la verità e quello che io pensavo. In una lettera di raccomandazione ci si mette la faccia e nessuno nel mondo anglosassone mentirebbe su cose così delicate. E poi si è liberi. Se io apro una posizione, devo essere libero di scegliere chi mi serve, non chi mi impone la commissione, cosa che qui non succede nella pratica perché in generale il vincitore dei cosiddetti concorsi è sempre quello che vuole il professore. E allora a cosa servono i concorsi? Ve lo dico io: servono a deresponsabilizzare i veri responsabili delle scelte. Il sistema va rivoltato. I concorsi dovrebbero essere aboliti. Chi apre posizioni dovrebbe rispondere delle scelte, con la possibilità di forti penalizzazioni, ma anche con effetti premiali».
Professore, in base alla Sua lunga esperienza in Italia e all’estero e alla Sua nota attenzione alla politica e ai problemi del nostro Paese relativamente al fenomeno dell’emigrazione in particolare dei nostri giovani, ritiene ci siano le premesse e la volontà per affrontare il tema una volta per tutte o non c’è alcuna speranza?
«Per il momento vedo grande confusione e la voglia di conquistare le prime pagine dei giornali con un profluvio di dichiarazioni personali. La strumentale fuga di Renzi e dei suoi sodali, per nulla inattesa, ha peggiorato le cose e avvelenato ulteriormente il clima. E mi pare che né Conte né Zingaretti siano in condizione di fermare questa deriva logorroica. Ma è chiaro che se il PD e LeU, i soggetti con la maggior esperienza politica e competenza dei problemi, non riescono a prendere in mano l’agenda del governo, lasciando spazio ai vagiti e ai capricci di Di Maio e alle arroganti invettive di Renzi, le cose si metteranno male. Eppure, qualche scelta credibile il M5S l’ha fatta (penso al Ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca), dimostrando una certa maturazione. Mi pare, però, che sia ostaggio delle ambizioni, dell’incoscienza e dell’arroganza del suo capetto. Anche il Ministro del Lavoro potrebbe costituire un’interessante novità, ma i primi passi fanno pensare che la fedeltà al suo capo sia più forte di quella alle sue origini. Dirò di più. Anche il Ministro della Salute, che già comincia a essere dileggiato, potrebbe rivelarsi una scelta vincente. Era molto che non avevamo in quella sede un politico di lungo corso, cosa critica secondo me anche per Economia e Lavoro. Altro che tecnici! Quelli sono Ministeri dove devono essere compiute scelte politiche».