Nel corso dell’intervista che ha inaugurato la nostra inchiesta sugli italiani all’estero, il Prof. Giovanni de Simone ha ricordato i dati EUROSTAT sul fenomeno emigrazione che ha quantificato, nel solo 2018, in oltre 400mila i giovani che hanno lasciato il nostro Paese, di cui il 30-40% è rappresentato dai cosiddetti cervelli, come ricercatori e medici. Quelli che fuggono, però, sono anche molti altri con grandi potenzialità produttive.
Cercare un posto di lavapiatti, aiuto cuoco, cameriere, nel nostro Bel Paese significa quasi sempre lavorare in nero o se in regola con strani accordi, cosa che difficilmente accade in altre nazioni europee. Qualche anno fa ero a Londra per lavoro, mi fermai a mangiare una pizza in un locale di fronte Victoria Station. Entrò un giovane di colore chiedendo se ci fosse possibilità di impiego come lavapiatti o altra mansione di aiuto in cucina, il proprietario gli chiese i documenti, registrò i dati al pc e gli disse di andare a indossare la divisa. Non c’è quindi da meravigliarsi della grande fuga, fenomeno questo sì preoccupante che, contrariamente alla propaganda degli ultimi anni sul pericolo invasione, è un fenomeno in crescita più che sensibile.
Questa settimana, rimanendo in Europa, dopo aver intervistato un bravo ricercatore in Germania, abbiamo incontrato Donatella Sollo, simpatica, solare e vulcanica trentenne trasferitasi circa tre anni fa in Olanda dopo aver girato in lungo e in largo la sua Napoli fotografando angoli, strade, vicoli e volti con la sua inseparabile macchina fotografica, come volesse catturare le ultime immagini della città e portarle con sé. Donatella ha puntato subito alla ristorazione, una delle sue grandi passioni, con la voglia di imparare e puntare sui locali più importanti della capitale olandese, riuscendoci in breve tempo e puntando un occhio anche su un altro suo amore, la pittura, il disegno, come ella stessa ci racconta.
A Napoli mi sentivo stretta, incatenata nella condizione di chi a 27 anni non può iniziare nulla di buono: questa tua affermazione nel corso della nostra chiacchierata mi ha particolarmente colpito e riflette un po’ il sentimento comune di tanti giovani. Ci spieghi meglio?
«Sono partita da Napoli in un’età in cui non è facile lasciare la propria comfort zone, immaginarsi lontano dalle proprie abitudini ormai consolidate, non avvertivo la leggerezza di una ventenne. Negli ultimi anni della mia vita partenopea mi sentivo stretta, è vero. Non associo questo limite al non aver conseguito una laurea o studiato il necessario tanto da garantirmi un lavoro sicuro e retribuito, sappiamo quanto questo a Napoli non basti comunque. Quello che considero stretto è non avere gli strumenti necessari per poter promuovere se stessi. Il mio spirito è sempre stato altrove, forse per questo mi sentivo stretta».
Senza alcuna esperienza e senza alcuna conoscenza di una lingua straniera ma con tanta passione per la cucina e l’arte e, soprattutto, con tanta voglia di imparare, a 27 anni hai deciso di partire per una meta ben precisa, Amsterdam. Perché l’Olanda?
«Avevo viaggiato tanto in Europa, sempre viaggi di piacere, mai nessuna città mi aveva colpito quanto Amsterdam. Ci sono stata due volte, la terza da cittadina è stata la più bella di tutte. All’epoca, prima della partenza, una mia amica che viveva in Belgio mi offrì un appoggio, ad Amsterdam non conoscevo nessuno se non un vecchio amico che non vedevo da tempo. Se avessi scelto la prima opzione forse sarebbe stato tutto più semplice, fatto sta che non me ne pento, anzi. All’inizio ho dovuto faticare il doppio, ma non è stato mai impossibile, perché nulla lo è».
Hai cominciato la tua carriera nella ristorazione cercando sin dall’inizio sempre il meglio dove poter esprimere te stessa ma anche imparare. Hai lavorato in uno dei più importanti e apprezzati ristoranti italiani di Amsterdam, da aiuto cuoco a sous chef, il secondo posto nella gerarchia in cucina, ruolo fondamentale nei grandi ristoranti, negli hotel, sulle navi da crociere. Poi cosa è successo?
«Ho avuto la fortuna di lavorare in uno dei migliori ristoranti di Amsterdam, da Segugio ho trascorso due anni intensi. È stata una vera scuola di formazione. Dalla panificazione alla creazione della pasta fresca, alla cucina molecolare. Credo che in Italia non mi avrebbero concesso uguali stimoli e responsabilità, c’è chi guarda con scetticismo la gavetta fatta all’estero, io sostengo che ogni esperienza è una storia a sé. È vero, all’estero di ristoranti dove poter lavorare facilmente senza sgobbare ce ne sono, ma non desideravo accontentarmi. La soddisfazione maggiore è stata riconoscermi valida in questo mestiere… e quella volta che abbiamo cucinato per il grande Mick Jagger! Dopo due anni era arrivato il tempo di cambiare, la cucina è un mondo di viaggiatori, il bello di questo mestiere è che ti permette di girare. Per un breve periodo ho lavorato in un ristorante gestito da olandesi che offriva cucina italiana. Anche lì ho potuto capire e apprendere le differenze tra la gestione italiana e quella olandese. In cucina bisogna stringere i denti, abbassare la testa e lavorare a ritmi frenetici. Le cucine sono porti di mare ed è per questo motivo che puoi lavorare con chiunque. Per fortuna in Olanda non esiste maschilismo in questo lavoro ma episodi di arroganza non sono mancati come del resto accade ovunque. La mia ultima esperienza in un ristorante è stata part-time, ora lavoro come babysitter con tre bambini italo-olandesi. Dall’estate vivo a casa loro, questo mi ha permesso di entrare appieno nella cultura olandese oltre che allenare il mio orecchio alla loro lingua. Per un attimo mi sono sentita a casa e questo è bello quando sei a 1854 chilometri da Napoli».
Il passaggio dall’arte della cucina a quella pittorica, evidentemente non casuale, ritengo abbia avuto delle motivazioni molto personali che mi piacerebbe approfondire anche in considerazione del sempre maggiore apprezzamento delle tue opere…
«In cucina, tra una ricetta e una composizione per un impiattamento, sono tornata la bambina creativa che avevo dimenticato di essere. Dopo tanto girovagare il disegno e la pittura sono tornati a esistere e trovare spazio nella mia vita. Lavorando part-time ho potuto dedicarmi alla scoperta di questa città dal punto di vista artistico. Ho iniziato ad andare in giro con i miei album da disegno, disegnare le persone che incontravo per strada, stimolare la mia inventiva, è stato come riconoscersi. Così ho cominciato a dipingere. Una mia cara amica, organizzatrice di eventi ad Amsterdam, stava lavorando a un progetto per una manifestazione creativa. Me ne ha parlato e mi ha offerto la possibilità di esporre i miei lavori, cosi ho potuto organizzare insieme a lei e altri artisti emergenti la mia prima mostra. A breve ci sarà quella a Napoli».
Hai allestito una mostra nella bella città olandese che ha riscosso molto successo e che si terrà anche a Napoli dal 17 al 22 gennaio prossimo, su iniziativa del nostro giornale, presso il centro artistico e culturale WeSpace. Che genere di pittura è la tua? Quale quello maggiormente apprezzato dagli olandesi?
«La mia pittura si esprime attraverso il linguaggio della ritrattistica dalla più intima a quella legata alle questioni sociali. Dalla disuguaglianza razziale allo sport come messaggio positivo. I miei personaggi sono quelli noti e sconosciuti, scelti secondo la logica dell’attrazione, verso un particolare, un vestito indossato con eleganza, uno sguardo che cattura la mia attenzione. Giro tanto, osservo, prendo molto dalla strada, spesso catturo con la mia macchina fotografica immagini, colori, volti che evolvo in pittura. Prendo ispirazione dalla fotografia, dalla black music, dalle strade percorse. In questa settimana ci sarà la Amsterdam art weekend, artisti da tutto il mondo. Sicuramente Amsterdam è un terreno fertile, io comincio a muovere i primi passi e lasciare qualche seme lungo il cammino».
La cucina? La ristorazione? Solo un bel ricordo o un ritorno in futuro, magari in una struttura tutta tua?
«È difficile spiegare quanto si possa essere artisti e non volerlo necessariamente collegare a una professione o uno status sociale. Non credo di avere la pretesa di volerlo diventare, considero essere un concetto diverso dal divenire. Credo che la mia vita, le mie scelte possano far intendere meglio cosa c’è dietro. La cucina è un lavoro anche molto duro ma è quello che so fare bene, la pittura è quello che voglio fare a ogni costo, a prescindere dalle mie evoluzioni. Ho trovato un connubio che può esprimere al meglio la mia persona».
Cosa senti di dire a chi come te ha voglia di credere in qualcosa di nuovo che possa essere concreto e non solo un sogno?
«Se avessi pensato a tutte le cose che non possedevo o che mi avrebbero reso il cammino più difficile, sicuramente non sarei mai partita. C’è una bellissima esortazione latina che esprime appieno il mio pensiero: sapere aude: abbi il coraggio di conoscere, di sapere».