Non ci sono bambini in Palestina. Solo occhi innocenti costretti a guardare la violenza dei grandi. Si rincorrono tra le macerie di quelle che un tempo erano le loro case, scansano le mine antiuomo saltando su un piede solo, si raccontano storie di città che nemmeno conoscono e che, forse, non vedranno mai. Imparano a contare, quegli innocenti, i proiettili raccolti per la strada, la loro infanzia perduta, l’ultima volta che un razzo non ha squarciato il buio di Gaza. Ci sono i soldati di Israele, in Palestina, tate senza apprensione, l’attenzione a che non diventino grandi, gli occhi perdano l’innocenza.
È il 1948, è il 2023. È al-Nakba, la catastrofe, il giorno che vide la nascita ufficiale di Israele. È al-Aqsa, le sirene che non smettono di suonare, un assalto senza precedenti. Ma solo da questo lato della barricata. Sabato 7 ottobre, il gruppo radicale di Hamas ha attaccato via terra, via mare e via aerea il Paese di Netanyahu, causando numerose vittime civili e militari e l’inevitabile sete di vendetta. La storia, in quello che è uno dei luoghi più militarizzati al mondo, potrebbe cominciare qui e, invece, ha radici lontane. L’eterno tentativo di estirparle.
A est di Haifa, a Gerusalemme, Tel Aviv, Gaza, in tutta quella che un tempo era Palestina e oggi non è più, guerra è la sola costante. Guerra è tutto ciò che Israele ha appreso dalla Shoah. Sempre meno Terra Santa, sempre più Paese militare, come lo definiva Primo Levi nel 1982. Lui che era sopravvissuto alle deportazioni, alla brutalità nazista, ai campi di concentramento, condannava le politiche sioniste sulla prima pagina de La Stampa. Oggi non è questa la versione più accreditata, oggi la verità è soltanto opinione.
Haggai Matar, giornalista e attivista israeliano, non ha paura di raccontarla: Contrariamente a quanto dicono molti israeliani, e sebbene l’esercito sia stato chiaramente colto completamente alla sprovvista da questa invasione, non si tratta di un attacco «unilaterale» o «non provocato». La paura che gli israeliani provano in questo momento, me compreso, è solo una parte di ciò che i palestinesi provano quotidianamente sotto il regime militare decennale in Cisgiordania e sotto l’assedio e i ripetuti assalti a Gaza.
Eppure, ci stanno provando in tutti i modi a raccontare questa guerra come se fosse nuova, improvvisa, mai successa. Cercano parallelismi, pietismi facili, l’immagine di una vittima che è tale senza essere, anche, carnefice. Il bambino con il pigiama a righe che si specchia nel presente. Ma non è così, non è la stessa cosa, non è da un giorno all’altro: media e politica semplificano la storia, la cancellano, la mistificano. Ed è pericoloso. È, come la guerra, un crimine contro l’umanità.
Nessuno racconta cosa succede ogni giorno in quel fazzoletto d’Oriente che chiamiamo Palestina. Nessuno racconta di Israele, degli espropri, della menzogna di una terra senza popolo per un popolo senza terra. Nessuno parla del diritto al ritorno, sancito, tra gli altri, dall’articolo 11 della risoluzione 194 delle Nazioni Unite. Un diritto mai concretizzatosi, impedito dalla furia sionista che da più di settant’anni nega vita e ricordo, emulando un genocidio che soltanto ieri ha visto gli ebrei arrendersi ai campi di concentramento tedeschi prima di pensarne di nuovi per i prossimi perseguitati.
Nessuno racconta della Guerra dei sei giorni, delle donne arabe, dei ragazzini strappati alle famiglie, di una casa che non c’è. Del diritto a essere palestinesi, arabi, umani. Raccontano solo della violenza di Hamas – che, attenzione, va condannata –, delle israeliane rapite e abusate, degli animali umani, come li ha apostrofati il Ministro della Difesa di Netanyahu. Nessuno inorridisce alla verità della Striscia di Gaza: quasi due milioni di abitanti di cui un milione e duecentomila rifugiati espulsi dalle loro case e dalle loro terre, un luogo a lungo sottoposto ad assedio ed embargo, dove le macerie, la povertà e le bombe hanno trovato il loro porto sicuro. Oggi, Israele taglia gas, elettricità e acqua, i più basilari diritti umani. Sembra una reazione ai soprusi e, invece, in quegli stessi territori, già otto persone su dieci sopravvivono grazie agli aiuti umanitari.
Non si raccontano troppe cose dinanzi alla guerra. Dinanzi a questa, poi, figuriamoci chi vorrebbe. E, allora, lasciamo che sia ancora Matar a raccontare: Nell’ultimo anno sono stati uccisi più palestinesi e israeliani che in qualsiasi altro anno dalla Seconda Intifada dei primi anni 2000. L’esercito israeliano effettua regolarmente raid nelle città palestinesi e nei campi profughi. Il governo di estrema destra sta dando ai coloni mano libera per creare nuovi avamposti illegali e lanciare pogrom su città e villaggi palestinesi, con i soldati che accompagnano i coloni e uccidono o mutilano i palestinesi che cercano di difendere le loro case. Nel mezzo delle festività, gli estremisti ebrei stanno sfidando lo status quo attorno al Monte del Tempio/Moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme, sostenuti da politici che condividono la loro ideologia.
A Gaza, nel frattempo, l’assedio in corso continua a distruggere la vita di oltre due milioni di palestinesi, molti dei quali vivono in condizioni di estrema povertà, con scarso accesso all’acqua pulita e circa quattro ore di elettricità al giorno. Questo assedio non ha una fine programmata; anche un rapporto del Controllore dello Stato israeliano ha rilevato che il governo non ha mai discusso soluzioni a lungo termine per porre fine al blocco, né ha preso seriamente in considerazione alcuna alternativa ai ricorrenti cicli di guerra e morte. Non vuole la pace Israele, e nemmeno l’Occidente alleato, soprattutto se a stelle e strisce.
Non serve, tutto questo, a giustificare l’uccisione di civili: è assolutamente sbagliato. Ma serve a ricordarci che c’è una ragione per tutto ciò che sta accadendo oggi e che – come in tutti i casi precedenti – non esiste una soluzione militare al problema di Israele con Gaza, né alla resistenza che emerge naturalmente come risposta alla violenza dell’apartheid. È questo che dovrebbero raccontare i media. Tutto o niente, senza patteggiare: solo informando. Altrimenti diventa propaganda, fomentazione dell’odio, la bellezza di una guerra futura che è già passato. Che è presente. Che piace soltanto a coloro che non la subiscono.
L’unica soluzione è quella di sempre: porre fine all’apartheid, all’occupazione e all’assedio e lavorare per un futuro basato sulla giustizia e sull’uguaglianza per tutti noi. Non è nonostante l’orrore che dobbiamo cambiare rotta, è proprio per questo. Perché ci siano bambini in Palestina. Bambini in Israele. Due terre per due popoli, occhi innocenti a contare le stelle.