*Contributo a cura di Ernesto Nocera
Nel numero di luglio/agosto 2016 di Foreign Affairs fu pubblicato un articolo di Aluf Benn di Haaretz dal titolo Come Netanyahu ha trasformato la nazione. La tesi, preoccupante e veritiera, era che Israele, o almeno quella versione di Israele largamente progressiva e laica che aveva catturato le simpatie del mondo, non esistesse più. Quel mito è crollato e al suo posto c’è, oggi, uno Stato dominato da una destra estremista influenzata da rabbini ortodossi. La critica, infatti, era decisa nel sostenere che Netanyahu has metamorphosed in un radicale di destra che concepisce la democrazia come potere incontrollato della maggioranza e che non ha pazienza per quisquilie come la protezione legale delle minoranze. Il giornalista aveva ragione.
Verso Israele, agli inizi della sua formazione, c’era stato un moto di simpatia da parte della sinistra democratica. L’esperienza collettivista dei Kibbutzim aveva scosso molti fra i giovani europei che, in massa, erano partiti per condividerla. D’altra parte, alla sua alba, la vita del Paese era stata dominata dalla sinistra laburista e dai sindacati. La tragedia, tuttavia, maturò quando i palestinesi rifiutarono la direttiva ONU sulla costituzione di due Stati, scatenando la prima guerra del Sinai che persero in maniera clamorosa e facendo scattare in Israele il riflesso dell’autodifesa. I padri della patria israeliana avevano programmato tutto con attenzione, anche dal punto di vista militare. La loro politica nucleare, in effetti, era nata ancor prima della nascita della nazione, come dimostra con abbondanza di documenti il dottor Avner Cohen nel suo libro, frutto di otto anni di ricerche, Israel and the bomb – 1998 Columbia University Press. New York.
Il drammatico punto di svolta, però, fu l’assassinio di Rabin. Da quel momento in poi, infatti, Israele cambiò natura facendo propria una politica dominata dalla destra e fortemente influenzata dagli ebrei ortodossi che, ancora, spingono per ottenere il riconoscimento della loro terra come Stato ebraico, ponendosi concettualmente allo stesso livello di Iran e Arabia Saudita (non tutti i Paesi musulmani chiedono il riconoscimento come stato islamico. Giordania e membri del MENA sono Stati laici in cui la Shar’ia non è legge). Una simile condizione, tuttavia, creerebbe problemi interni, dato che oltre un terzo dei cittadini israeliani è di religione musulmana, e problemi internazionali considerando che sarebbe in contrasto con la concezione laica dello Stato propria della cultura occidentale.
Israele è un Paese moderno sul piano della tecnologia e della ricerca, ma arretrato sul piano sociale e politico, fortemente dipendente dalla memoria della Shoah che condiziona tutti gli aspetti della sua vita, al punto che perfino i liceali si sentono reduci di quella drammatica esperienza. Un Paese reazionario che, però, vive in contraddizione con la sua storia. Difatti, lo stesso Stato che fu, ovviamente, uno tra i primi a firmare l’accordo sui rifugiati, vuole adesso espellere 32mila profughi somali ed eritrei sapendo bene che per queste persone il rientro in patria significherebbe morte sicura. Per respingerli meglio, inoltre, sta usando la tattica del non sostegno: niente assistenza sociale né medica, niente lavoro e per quelli che lavorano, invece, trattenuta del 20% dello stipendio lordo a titolo di risarcimento per eventuali danni. Una mostruosità giuridica.
Il dottor Avraham Burg, già ministro e Presidente della KNESSET (Parlamento) ha lanciato un grido di dolore. Nel suo libro Sconfiggere Hitler (Neri Pozza editore, 2008) ha scritto: Ma chi non si lava le orecchie e perciò non sente, chi non si pulisce gli occhi e perciò non vede, non si dovrà stupire quando un giorno o l’altro capirà quanto Israele assomigli già a una Germania che sviò il popolo tedesco e permise ai nostri sterminatori di portare a compimento i loro diabolici progetti. In effetti, stranamente, la nostra situazione ricorda la Germania durante il periodo che va dall’umiliazione della sconfitta della prima guerra mondiale all’avvento di Hitler e dei nazisti al potere. Ha aggiunto lucidamente, inoltre (a pag.90): lo Stato militarista non ha altra direzione che non sia la rigidità politica e sociale fondata sulla predisposizione del popolo ai pregiudizi e alla discriminazione di ogni “altro” e di chiunque sia considerato avversario della nazione unificata.
La minoranza democratica di Israele ha gravi problemi di operatività eppure questi uomini coraggiosi continuano la loro lotta. Spesso, con grande superficialità, le critiche “politiche” al governo israeliano vengono gabellate per anti-semitismo. Niente di più falso. Sono, anzi, un atto d’amore nei confronti di quel Paese che perseguendo strade simili a quella nazista si arrende a Hitler, non lo sconfigge.
Ho l’impressione, infine, che alla comunità israelitica italiana stia accadendo qualcosa di equiparabile a quello che accadde alla comunità italo-americana con la dittatura di Mussolini. Sentendosi emarginata e repressa, vide nei successi politici del regime fascista un momento di riscatto e diventò mussoliniana, salvo essere delusa quando il mascellone dichiarò guerra agli USA. Il simile, mi pare, intervenga con la comunità di cui sopra che non riesce a capire che è proprio l’affetto verso Israele e il rispetto per la sua tragedia a motivare le critiche a un governo che con la sua azione si è arreso a Hitler e che, continuando così, non lo sconfiggerà mai. SHALOM!