Come la luna. Il volto di Mahsa Amini illumina la notte di Teheran. In Iran dovrebbe essere buio pesto, invece una nuova luce invade le piazze, risidegna i profili dei palazzi, accarezza i sogni di chi non vuole più dormire. La sveglia, anziché attendere le prime luci del mattino, è già suonata. Suona ininterrottamente dallo scorso 16 settembre quando Mahsa Amini, 22 anni, è stata arrestata dalla polizia religiosa per non aver indossato correttamente il velo islamico. E così, di hijab e polizia, è morta proprio lei, Come la luna, la ragazza il cui nome ha l’eco di un presagio.
L’autopsia la chiama ipossia, la carenza di ossigeno che provoca danni cerebrali e il rapido deterioramento di altri organi. In Iran la chiamano tortura, le chiamano percosse, le stesse che in un luogo non così lontano qualcuno ha chiamato anche epilessia. Stefano e Mahsa. Un uomo e una donna. Due giovani vite. Un’associazione azzardata o forse no. La violenza della repressione, la violenza della polizia, due non motivi per morire. Due motivi per volere un mondo diverso.
E se, in Italia, ancora fatichiamo a fare i conti con la barbarie di scomparse come quella di Stefano che, anche se accertata, rischia di non costituire precedente per la tanto agognata riforma di un sistema che miete vittime, in Iran la morte di Mahsa ha scatenato rivolte in più di ottanta città, con centinaia di migliaia di manifestanti e una leadership tutta al femminile.
In un Paese in cui le donne rispondono alla legge della Shari’a, sono proprio loro, infatti, ad alzare la voce, a tagliarsi ciocche di capelli in segno di protesta, gli stessi che fuoriuscivano dal velo che ha ucciso Mahsa. Brucia quel velo, brucia la rivoluzione: è tempo di sovvertire regole imposte da qualcun altro. La questione femminile, però, non riguarda esclusivamente l’obbligo che le donne hanno di portare l’hijab sin dalla tenera età, ma è il fuoco attraverso cui arde un feroce sentimento di libertà che spinge il popolo dell’Iran a invocare il rovesciamento della dittatura, un processo iniziato già da tempo e che ora sembra trovare una forza nuova.
Era già successo, in passato, che molte donne iraniane smettessero l’hijab per scattare selfie in segno di protesta. Un gesto apparentemente semplice e, tuttavia, dalla portata enorme, rivoluzionaria, pericolosa al punto da significare per molte il carcere o, addirittura, la morte. Quella che è toccata all’attivista Hadith Najafi, 23 anni, uccisa in questi giorni con sei colpi di arma da fuoco. Al petto, al collo, al viso. La polizia ha sparato ovunque e ovunque è arrivato l’ultimo messaggio della giovane donna: non vedo l’ora di rivedere questo video tra qualche anno, mi vedrò felice di essere andata a queste proteste, perché finalmente tutto è cambiato.
Tutto è cambiato. È presto per dirlo, di certo tanto si è mosso. Finora, almeno 130 attivisti sono stati uccisi, 1500 persone arrestate – tra cui anche l’italiana Alessia Piperno –, ma i numeri continuano a crescere di ora in ora. Dalla Rivoluzione del 1979, l’hijab è obbligatorio per tutte le donne che hanno compiuto i nove anni. Dal 5 luglio del 2022, però, una direttiva ha inasprito le punizioni per chi lo usa in modo improprio. E, così, le azioni violente della cosiddetta polizia della morale sono aumentate, alimentando una fiamma che brucia da tanto e invano è stata domata.
Le proteste in corso sembrano diverse da quelle che hanno scosso il Paese nei tanti precedenti. La crescente partecipazione di decine di migliaia di iraniani nati dopo il 2000, infatti, dimostra che i valori della Repubblica Islamica – che non sono quelli dell’Islam – cominciano a non attecchire più, disgregando l’efficacia della propaganda di Stato e indebolendo un regime di terrore che da troppo impone leggi e comportamenti quotidiani così austeri da non trovare riscontro nemmeno a palazzo. Corruzione, brogli finanziari, politica interna coercitiva e politica estera inefficiente: l’unico modo per legittimarsi è la violenza. Ma la violenza, si sa, chiede spesso vendetta. E, così, generazione dopo generazione, le donne iraniane cercano di liberarsi dalle catene. Con l’aiuto dei social network sfidano l’ordine morale, attirano l’attenzione, urlano più forte.
Vita e libertà: è questo che chiedono le manifestanti, gli uomini al loro fianco, i tantissimi ragazzi in piazza. Ma non solo questo. Quello che cantano per le strade non riguarda più l’hijab o la polizia moralista: vogliono un cambio di regime, ma per ottenerlo dovranno lottare – e tanto – senza esitare nemmeno per un attimo. L’Ayatollah Ali Khamenei, in effetti, ci ha già provato incolpando i nemici stranieri per i disordini cominciati nel Paese il 16 settembre. Ancora, ci prova con autopsie che tutto raccontano tranne l’evidenza dei fatti: Mahsa morta di ipossia, Nika Shakarami (16 anni) caduta da un palazzo, Sarina Esmailzadeh (16 anni) morta suicida. Tutte giovani donne e tutte vittime di una casualità.
L’Iran, d’altro canto, ha una lunga storia di proteste represse nel sangue, dalla rivoluzione verde del 2009 ai movimenti di appena tre anni fa, quando Sahar Khodayari si è tramutata in una torcia umana in seguito alla condanna a sei mesi di reclusione. Sahar aveva osato recarsi allo stadio Azadi di Teheran riuscendo a eludere la sicurezza e a supportare i propri colori travestita da uomo, l’unico modo, per una tifosa persiana, di seguire una partita dal vivo.
Nella Repubblica Islamica, infatti, per le donne vige il divieto assoluto di assistere a qualsiasi tipo di evento sportivo al fine di proteggerle dalla natura violenta di talune manifestazioni e di non vedere gli atleti in pantaloncini. Nel Paese, però, non è sempre stato così. La Rivoluzione del 1979 e l’ascesa dell’Ayatollah Khomeini, infatti, hanno significato per l’Iran un volto nuovo tendente all’estremismo politico e religioso. Prima di allora, la situazione era molto diversa, nonostante al potere vi fosse la storica famiglia dello Scià Mohammad Reza Pahlavi, il re spalleggiato dagli Stati Uniti e messo in fuga per quel processo di occidentalizzazione di facciata concretizzatosi soltanto in politiche oppressive, corruzione, povertà e crescente insofferenza nei vari strati della popolazione.
Così, l’arrivo dello sciita era parso un’importante opportunità che, tuttavia, ha portato negli anni a una vera teocrazia, un velayat-e-faqih, letteralmente governo del giureconsulto, che ha reso il Paese una Repubblica Islamica, vale a dire una terra dove la Shari’a, la legge coranica, la fa da padrona. Da allora, l’Iran è mutato completamente dal punto di vista sociale, economico, politico e culturale. In particolare, a essere cancellati sono stati i diritti delle donne, ridimensionate a mere servitrici.
Molte, infatti, sono le norme che relegano le iraniane a un ruolo di subalternità. Una donna, ad esempio, ha diritto solo a metà dell’eredità che le spetterebbe rispetto ai fratelli, la sua testimonianza in un processo vale la metà di quella di uomo così come la sua vita vale la metà ai fini di un risarcimento in caso di incidente. La donna, inoltre, è sottomessa alla tutela del marito o, se nubile, a un altro componente maschio della famiglia, un tutore che deve persino riconoscerle il permesso per rinnovare il passaporto.
Altre coercizioni riguardano, poi, l’abbigliamento. Su tutte, l’imposizione dell’hijab e di vestiti lunghi e larghi o pantaloni. Qualsiasi cosa, insomma, che copra le forme e lasci liberi mani e piedi. A tal proposito, una foto scattata a Teheran nel dicembre del 2017 è diventata simbolo di numerose manifestazioni. Una giovane attivista, in piedi e senza velo, sistemato su un bastone retto come una sorta di bandiera, ha fatto il giro del mondo, incoraggiando molte donne, come – prima di lei – Masih Alinejad, giornalista e fondatrice del movimento My Stealthy Freedom, già vincitrice nel 2015 del Premio Women’s Rights Award, a privarsi del copricapo e a scattare un selfie per ribadire la propria libertà furtiva.
Anche nella vita politica ci sono pesanti restrizioni. Una donna non può essere eletta Presidente della Repubblica e fortemente limitata è la sua rappresentanza in Parlamento, nonostante abbia diritto al voto. Abusi, stupri, molestie e violenza domestica sono poi pratiche piuttosto impunite e la parità di diritti in ambito coniugale è nei fatti ancora nulla. Anche il matrimonio è forzato e precoce. Come se non bastasse, per il Codice Civile una donna intenzionata a divorziare deve necessariamente provare le difficoltà insopportabili che l’hanno portata a quella decisione, mentre a un uomo è permesso separarsi senza fornire una giustificazione. Ai mariti è garantito persino il diritto esclusivo di avere almeno due mogli fisse e di contrarre un numero senza limiti di Sigheh, matrimoni temporanei.
Niente mantenimento, invece, a coloro che sarebbero venute meno ai doveri coniugali, come i rapporti sessuali e l’abbandono del tetto condiviso senza il permesso dell’uomo: l’incapacità della moglie di soddisfare i desideri del marito, senza una scusa accettabile, costituisce Nushuz, disobbedienza, vale a dire perdita dei propri diritti. Inoltre, ancora oggi, al centro del contratto matrimoniale c’è il Tamkin, una sottomissione che si traduce in disponibilità sessuale senza ostacoli. Le relazioni tra donne omosessuali, invece, sono punite con cento frustate e, in caso di quarta recidiva, anche con la pena di morte.
Con l’aumentare delle rivolte, le autorità hanno classificato qualsiasi iniziativa legata alla lotta per le pari opportunità come attività criminale. Nonostante questo, però, le donne iraniane restano sempre in prima fila, pronte a combattere per i diritti propri e per quelli del Paese che amano. Un Paese dove ogni anno più di 150mila giovani istruiti partono, contribuendo a uno dei più alti tassi di fuga di cervelli al mondo. Un Paese dove il fuoco di Sahar Khodayari brucia, oggi, l’hijab di Mahsa e di tutte coloro che non vogliono più essere nulle. Nulle come, invece, rischiano di essere le rimostranze a distanza, la solidarietà di chi pubblicamente taglia ciocche ma non conosce le cause, la storia, la forza di un gesto che in Iran ha un senso e altrove finisce con il diventare moda.
Penso alle mani con su scritto Ddl Zan, per tornare in Italia, e alla successiva mancata presa di posizione al suo affossamento prima e alle derive sempre più destrorse poi. Penso a Christian Raimo e alle sue inequivocabili – e condivisibili – parole: ogni gesto, ogni atto politico va contestualizzato; altrimenti il rischio è quello di ridursi a pensare la politica come forma di testimonialità effimera. Penso a Masih Alinejad che lo ha detto in modo ancora più esplicito: «Noi donne iraniane non abbiamo bisogno che esponenti della politica occidentale si taglino i capelli, vogliamo che taglino i loro legami con i nostri assassini. Ecco come si dimostra la vera solidarietà».
Con l’informazione, con l’analisi storica e politica, con le piazze piene. Per le donne iraniane, per Mahsa Amini, per Alessia Piperno, contro la violenza e la repressione di ogni dittatura, più o meno velata. Perché un grido diventi coro, da Teheran a Mosca, da Kiev a Roma. In ogni angolo della Terra a dissipare il buio di questi tempi moderni. A suonare la sveglia, invadere le strade, illuminare la notte. Come la luna.