Si è concluso da poche ore Internazionale a Ferrara 2021, il festival dei giornalisti di tutto il mondo. Ritornata finalmente in presenza, la manifestazione è stata organizzata nel rispetto delle nuove norme imposte dalla pandemia e, dunque, ha dovuto fare i conti con numerose restrizioni e limitazioni che, però, non ne hanno alterato la solita magia.
E, così, anche se con eventi meno affollati e partecipati, è stato possibile assistere a numerosissime conferenze e dibattiti su temi caldi dell’attualità. La città delle biciclette ha serbato, anche quest’anno in cui tutto ci è sembrato cambiato, la sua immagine di luogo di incontro, di spazio in cui coltivare riflessioni e confrontarsi. Presenze contingentate, prenotazioni obbligatorie, dispositivi di sicurezza e distanziamento sociale. Eppure un affollarsi di idee.
Tre giorni e un programma ricchissimo dal quale è stato difficile scegliere gli appuntamenti da seguire: workshop, rassegne stampa, presentazioni di libri e podcast, focus su donne, ambiente, mondo, Europa, diritti.
Se dovessi individuare, tra gli incontri a cui ho assistito, un minimo comun denominatore, un tema che mi sembra urgente in tutti gli aspetti della vita che affrontiamo quotidianamente e che ho ritrovato nelle riflessioni proposte, sceglierei la precarietà: la precarietà delle popolazioni afghane dopo il ritorno dei talebani, la precarietà delle persone queer e della loro, ancor troppo frequente, marginalità. Ancora: la precarietà dei giovani e del mondo del lavoro, universo incontaminato e terribile, o quella dei tanti Paesi retti da governi sovranisti. Infine, la precarietà di chi vive una dipendenza o ha bisogno di cura e trova nello Stato e in chi dovrebbe garantirgli tutela e assistenza il suo aguzzino e i peggiori abusi. E potrei continuare all’infinito. Forse, è proprio la precarietà vissuta negli ultimi mesi a portarmi a individuarla come una sensazione, un vivere, che accomuna tutti noi e il tempo che viviamo.
Gli incontri sono stati portati avanti sempre con profonda consapevolezza dei temi trattati, andando oltre la narrazione tipica cui assistiamo quotidianamente e mettendo in dubbio il punto di vista da cui guardiamo le cose, quello di chi è privilegiato. E così l’Afghanistan è stato raccontato da chi ci vive, o ci ha vissuto, da chi raccoglie testimonianze di civili e fa lavori di ricerca da anni, come Lorenzo Tugnoli e Ghazal Golshiri. L’identità queer da chi vive quotidianamente sulla sua pelle il pregiudizio e il disagio di un corpo che non avverte proprio, di una società giudicante, di un contesto che non permette espressione. La piaga della dipendenza e degli abusi non solo da chi se ne occupa, ma anche da chi li ha vissuti in prima persona, essendo rinchiuso a Sanpa, ad esempio, come Fabio Cantelli Anibaldi.
La precarietà, dunque, e le persone al centro. Per ritrovarsi e rincontrarsi. Mettere le persone al centro significa saper individuare, ad esempio, quella che Mark Gevisser – giornalista sudafricano presente al Festival – nel suo ultimo lavoro, riferendosi alle identità queer definisce pink line, una linea rosa tracciata a dividere chi riesce a vivere più o meno serenamente e consapevolmente la propria esistenza e chi, invece, è criminalizzato per il suo stesso essere. Una linea rosa che potremmo tracciare in tutti gli ambiti: da una parte il privilegio, dall’altra l’oppressione. Da una parte l’abbandono, dall’altra l’indifferenza. Da un lato vite marginali, dall’altro possibilità guadagnate con la sola nascita.
Dunque, il tema dell’autodeterminazione e di quanto questa sia influenzata dai contesti e dalle reti in cui finiamo impigliati. La mancanza di istituzioni che tengano fede al loro impegno di garantire un’uguaglianza sostanziale, la consapevolezza che è impossibile farcela da soli. È quello che sentivo mentre vedevo mani agitarsi dal pubblico, mani per lo più giovani che ponevano domande, desiderosi di una risposta. Desiderosi di trovare un senso al rifiuto, alla discriminazione, al pregiudizio, alla solitudine cui quest’anno ci ha condotti tutti.
Il Festival d’Internazionale ci ha dimostrato, anche in questa edizione, che pur accomunati dalla precarietà della solitudine, ha senso il confronto, l’incontro, la comprensione, la messa in discussione di categorie che pensiamo immutabili e che invece necessitano solo del coraggio. Non di uno, ma di una collettività, che dobbiamo ancora imparare a essere.