In momenti di emergenza, alcune libertà vengono meno. Accade perché il diritto alla vita e alla salute prende momentaneamente il sopravvento sugli altri diritti e, dopo due mesi di lockdown, la consapevolezza a riguardo è abbastanza concreta da non sorprenderci più se decreti e direttive ci impongono nuove misure restrittive. Di lamentele ce ne sono state fin troppe, di persone incapaci di considerare l’emergenza un caso del tutto eccezionale che impone condizioni momentanee altrettanto eccezionali. Eppure, mentre i cittadini di un Paese libero si sono lamentati di provvedimenti necessari, ci sono zone del mondo in cui l’emergenza coronavirus è diventata un’ottima scusa per negare davvero la libertà.
L’esempio a noi più vicino è quello dell’Ungheria che, con i superpoteri di cui si è dotato Orbán, sta vivendo momenti terribilmente vicini ai ricordi di un passato non ancora dimenticato. Ma quello ungherese non è certo l’unico Premier ad approfittare della situazione di emergenza per assumere il totale controllo del proprio Paese. E in ognuno di questi sfortunati luoghi, la prima mossa dei supergoverni è osteggiare la libertà di stampa.
Tanto importante quanto sottovalutato, il diritto alla libera stampa garantisce la democrazia e tutti di diritti che ne conseguono, diritti per cui la censura rappresenta un’incredibile minaccia. Approfittando della situazione eccezionale che la pandemia offre, però, in molti Paesi la libertà di stampa sta incontrando irragionevoli – ma chiari – ostacoli. A confermarlo è il rapporto annuale sul World Press Freedom Index, una classifica compilata da Report Senza Frontiere che stabilisce il livello di libertà di stampa di 180 Paesi. Ogni report fa riferimento alla situazione dell’anno precedente e l’ultimo, appena pubblicato, mostra un leggero ma preoccupante peggioramento in tutto il mondo. A parte gli Stati nordeuropei, confermati in cima alla classifica, il resto del pianeta fa piccoli passi indietro che potrebbero essere indice di un progressivo e pericoloso attacco al delicato diritto alla libera stampa. Il report sottolinea, inoltre, la presenza di un collegamento tra le violazioni di tale fondamentale libertà e la pandemia in corso, che diventa un alibi perfetto per giustificarne una repressiva censura.
La linea generale è quella di imporre restrizioni su come trattare il tema coronavirus per non allarmare la popolazione con notizie false. Ma i reali provvedimenti vanno ben oltre. In Cina, per esempio, i giornalisti che hanno provato a informare sull’argomento o hanno criticato l’operato del governo sono scomparsi. La comunicazione istituzionale russa scredita i provvedimenti europei e l’Armenia permette ai suoi redattori di citare solo i dati forniti dal governo stesso. In Ungheria i giornalisti rischiano fino a cinque anni di carcere per una mossa falsa, mentre Amnesty International ha stabilito che in Egitto il giornalismo è considerato alla stregua di un delitto da sopprimere necessariamente. L’ultimo posto della classifica è ovviamente occupato dalla Corea del Nord. Nel Paese già vittima di una irremovibile dittatura, è vietato leggere un qualunque media straniero. E non è un caso, dunque, che in epoca di pandemia in Corea non risulti alcun caso di positività al coronavirus. Nonostante questi esempi che appaiono tanto estremi, è però importante non cedere alla tentazione di considerarci esclusi o lontani da tali insostenibili condizioni.
Anche l’evoluto Occidente, infatti, si macchia di importanti attacchi ai media. Ne è certamente un esempio il Presidente americano Trump, che si difende spesso dalle domande scomode dei giornalisti accusandoli – senza alcuna prova a suo sostegno – di diffondere fake news. Ma anche in Italia la situazione non è poi tanto diversa: secondo il World Press Freedom Index, infatti, anche il Bel Paese perde posizioni dimostrando di non essere in grado di tutelare i giornalisti e il loro importante lavoro al servizio dell’intera società.
Frequentemente accusati di diffondere fake news o addirittura di atti di terrorismo, dunque, i giornalisti sono alla prese con autoritarismi confermati o nascenti che vedono nella libertà di stampa la più grande minaccia. Attualmente, in tutto il mondo, oltre 230 giornalisti professionisti e 115 citizen journalist risultano incarcerati. La minaccia alla libertà personale di innumerevoli reporter dimostra quanto il diritto alla libera stampa non sia un diritto come un altro che tutela una professione come un’altra. Il buon giornalismo, quello che opera nel rispetto della sua missione, ha il compito di informare i cittadini abbastanza da renderli in grado di costruirsi un’opinione basata su dati concreti.
È vero, dunque, che la libertà di stampa rappresenta il fondamento di ogni società democratica. Lo stesso sviluppo dei media e la loro crescente importanza si è sviluppata parallelamente alle democrazie occidentali, a partire da quando, tra XVII e XIX secolo, l’individuo ha acquisito enorme importanza e la libertà ne è diventato il diritto più importante. E la democrazia esiste quando agli individui è offerto un sistema informativo libero e pluralista, che li informa in modo indipendente dai poteri politici e che incoragga il dibattito, che invita a pensare.
Un tipo di informazione, insomma, che sia in grado di opporsi alla propaganda e alla disinformazione non solo figlia dei social media ma spesso incoraggiata dai governi stessi. Risulta allora evidente perché molti esecutivi autoritari vedano nella libera informazione una minaccia al loro potere. E se il diritto alla libera stampa è in grado di garantire i democratici diritti a cui siamo tanto affezionati, il rischio della diffusione di qualche falsa notizia o di opinioni discutibili è il prezzo da pagare in favore di una società priva di oppressioni.