Cercare lavoro è già un lavoro. Porta via moltissimo tempo, applicazione ed energia. Aggiornare costantemente il curriculum in base al tipo di posizione per la quale ci si candida, costruirlo in modo tale da colpire l’interlocutore, in modo diverso per ogni recruiter. Cambiare costantemente il portfolio, perché ogni annuncio lo richiede in formato, forma, costruzione creativa diversa. Passare almeno un paio d’ore al giorno sui portali di annunci, spulciarli, alla ricerca dell’occasione giusta. Selezioni che richiedono test, prove pratiche da inviare, elaborati, relazioni, prove grafiche, articoli, cose che richiedono ore di lavoro.
Ore di colloqui, di test, di verifiche tecniche, di preparazione, ore che non fanno parte della propria formazione né del proprio impiego, ore non retribuite spese nella speranza di trovare una retribuzione. E, se mentre cerchi un nuovo impiego già lavori, già hai gran parte della tua giornata impegnata, quelle due ore al giorno ti costano ancora di più.
Dunque, impiegare il proprio tempo per annunci vaghi, che non chiariscono il livello contrattuale o la retribuzione, impiegare tutte le proprie energie per la selezione e poi scoprire, solo alla fine, di aver fatto tutto per uno stage mal pagato, per una situazione contrattuale peggiore di quella in cui ci si trova attualmente, è la più grande perdita di tempo che un giovane in cerca di lavoro si trova a fronteggiare.
È proprio a partire da questa situazione che nasce la nuova direttiva sulla retribuzione negli annunci di lavoro, che sembra voler dare un piccolo aiuto ai lavoratori o aspiranti tali in cerca di un impiego.
Secondo il Parlamento Europeo, infatti, i candidati hanno il diritto di ricevere informazioni chiare sul tipo di retribuzione prevista. In effetti, secondo i dati raccolti dall’Osservatorio Jobiri, solo l’1,5% degli annunci di lavoro contiene informazioni sulla retribuzione. La ricerca, condotta su oltre un milione di annunci pubblicati nell’arco del 2021 in tutta Italia, rivela anche che 14 regioni hanno una quota di annunci senza retribuzione specificata al di sotto dell’1%. Proprio a partire da dati come questi, il Parlamento Europeo ha approvato una direttiva pensata per rendere più trasparenti le offerte di lavoro. Per come è stata pensata, dovrebbe anche contribuire all’equa retribuzione tra uomini e donne, limitando la possibilità, per i datori di lavoro, di modificare il livello retributivo in base a pregiudizi razziali o di genere, e garantire ai lavoratoti la possibilità di avere tutte le informazioni necessarie per negoziare la retribuzione in modo equilibrato.
In effetti, in Italia restano moltissimi i casi in cui la discriminazione è possibile sin dalla selezione dei candidati. Non è apprezzato, per esempio, un curriculum vitae senza fotografia, o che non specifichi nazionalità e genere dei candidati. In molti paesi europei, invece, questi dettagli sono spesso omessi proprio per rendere più equa la scelta, basandola esclusivamente sulle caratteristiche del candidato. Non accade invece lo stesso in Italia, luogo in cui i CV privi di questi dettagli sono esclusi a priori dalla selezione. E, mentre tutti i dettagli della vita del candidato, dettagli privati che non dovrebbero in alcun modo influire sulla scelta, sono richiesti esplicitamente, i datori di lavoro hanno avuto la possibilità, finora, di omettere retribuzione e posizione contrattuale.
Non resta, dunque, che chiedersi se la nuova direttiva europea servirà effettivamente a qualcosa. Chiaramente, è pensata per migliorare la condizione in cui si trovano i candidati e, soprattutto, i giovani, cioè coloro che più facilmente vivono situazioni poco chiare. Ma non è strano chiedersi se effettivamente tutto ciò basterà.
In effetti, in Italia è attualmente vietato richiedere informazioni personali in sede di colloquio. È illegale chiedere ai candidati – alle candidate, più che altro – se sono sposati, con chi vivono, se desiderano figli. Eppure, si tratta di domande che vengono fatte regolarmente, ogni giorno. Sono fattori che fanno prediligere per un candidato rispetto a un altro, sebbene violino espressamente il Codice delle pari opportunità e lo Statuto dei lavoratori.
Questa iniziativa, dunque, è chiaramente apprezzabile, ma non è sufficiente. Sono moltissime le condizioni che contribuiscono alla creazione di un mercato del lavoro iniquo, dalle discriminazioni intrinseche all’interno della nostra società, fino alla legalità degli stage con rimborso spese inadeguati al costo della vita.
In un mondo in cui il lavoro, solo perché con poca esperienza, non viene pagato, in cui i dettagli della vita personale ancora hanno un peso sulle possibilità di carriera delle persone, indicare la retribuzione, da sola, non basta. Servirebbero interventi strutturali sul modo in cui funziona il mondo del lavoro, e soprattutto servirebbe un completo mutamento culturale, che permetta il rispetto dei diritti umani anche sul luogo di lavoro, perché avere una retribuzione non sia più considerata come una concessione, ma un diritto equo per tutti.