In questi giorni, hanno fatto scalpore il recente rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità – che ha calcolato, a livello globale, un tasso di mortalità da coronavirus triplo rispetto ai numeri ufficiali – e le ipotesi del New York Times sui reali decessi da Covid in India.
In particolare, supportato dallo studio di un team di oltre dodici esperti, il celebre quotidiano ha parlato di circa 4.3 milioni di morti nel Paese asiatico. La stima ufficiale, invece, al 24 giugno 2021, ne calcola circa 390mila per un totale di 30 milioni di contagiati. Un grande Paese, l’India, che conta 1.3 miliardi di abitanti flagellati dalla pandemia in una situazione già del tutto precaria, una terra dal grande fascino e dalle tante contraddizioni che difficilmente lascia indifferenti quanti la visitano sia per turismo che per lavoro.
Per chi non ha pregiudizi di ogni sorta, infatti, giungere all’Aeroporto Internazionale di Chhatrapati Shivaji, nella città di Mumbai, la più grande in assoluto con poco meno di 12 milioni di abitanti – il cui 60% vive negli slums, agglomerati di costruzioni fatiscenti perlopiù senza servizi igienici, sistemi fognari, corrente elettrica, acqua e gas –, nonché la quinta al mondo per maggiore inquinamento, collocata nel terzo stato indiano per estensione e il secondo per popolazione, ha un forte effetto emotivo, una forma di empatia che si avverte soprattutto sulla via del ritorno.
Accomodarsi, poi, in un vecchio taxi Fiat 1100 D perfettamente lucido, anche se con qualche evidente ammaccatura, e raggiungere uno dei dieci hotel di lusso della città in grattacieli che stridono con la condizione generale, strombazzando di continuo per farsi largo nel caotico traffico a ogni ora del giorno e della notte, rappresenta un primo notevole impatto umano al quale difficilmente ci si abitua, nei giorni successivi, attraversando Mumbai a piedi, con l’auto o in autobus anche a due piani che riportano alla mente il dominio inglese e le lotte del popolo indiano per l’indipendenza.
Soggiornare in uno dei lussuosi alberghi significa, infatti, lasciare fuori un mondo del tutto diverso con centinaia, migliaia di uomini e donne in condizioni precarie che si cibano nel migliore dei casi di vada pav, una frittella ripiena di purè di patate, spezie, peperoncini fritti e mostarda all’aglio e cipollina o semplicemente di riso con grande quantità di curry.
La malnutrizione rientra tra le cause principali delle malattie che Medici Senza Frontiere, presente in India dal 1999, cura maggiormente insieme alla tubercolosi e alle terapie di supporto per la salute mentale e l’assistenza alle vittime di violenza sessuale, fenomeno che, nel solo 2017, ha fatto registrare nel Paese – già tra i più afflitti da questa piaga – circa 34mila casi di stupro a cui vanno aggiunti i tantissimi che le stesse autorità dichiarano esser certe non vengano denunciati.
La pandemia, dunque, ha ulteriormente evidenziato le carenze e le insufficienze del sistema sanitario e sociale, nonché le condizioni di estrema povertà della maggioranza di un popolo la cui quasi metà degli abitanti vive sotto la soglia di povertà indicata dal recente rapporto OCSE in 1.25 dollari al giorno pro capite, una stridente contraddizione con una crescita economica che viaggia al 9% annuo, in India come in Cina, in Russia e in tanti Paesi in cui le disuguaglianze crescono con ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri, una pandemia ancora una volta occasione di arricchimento soltanto per pochi.
Il sistema delle caste, seppur abolito, ancora vige nella realtà indiana. La dominazione inglese, la corruzione dilagante, la degenerazione e la visione superstiziosa delle religioni sono tra le cause di una povertà diventata sistema che le politiche praticate non sembrano voler sconfiggere.
I ricordi di chi scrive, risalenti a poco più di dieci anni fa e relativi ad alcuni viaggi per motivi di lavoro, sono impressi nel cuore e nella memoria. Immagini difficilmente cancellabili di una realtà inaccettabile, come le lunghe file al tramonto di masse silenziose in attesa di un pasto caldo servito sul marciapiede dalle suore di Madre Teresa di Calcutta accanto ai grandi pentoloni di riso e curry il cui odore penetrante resta per giorni, così come quei volti e la grande dignità che solo gli ultimi sanno esprimere.
Un giovanissimo volontario di Napoli che dona il suo stipendio guadagnato al mattino presso un ente del nostro Paese, il suo impegno totale a servizio delle comunità più povere e dimenticate sono stati l’unico segnale di speranza che mi ha accompagnato nei viaggi di ritorno e che, in tutto questo tempo, ancora mi riporta a quei momenti difficili, seppur privilegiati per chi, come me, fortunatamente ha potuto rifugiarsi nel benessere di un ricco hotel a contatto con eccellenti professionalità che nulla hanno da invidiare alle nostre.
Le immagini della catena umana sulle scale di un grattacielo adibito a uffici composta da decine di uomini e donne, alcune con i loro bambini in spalla, intenti a passarsi il materiale di risulta proveniente dalla ristrutturazione di un immobile, il tutto per alcune rupie, è forse la scena che maggiormente ha stretto cuore e mente, una condizione che grida giustizia ed equità vera per quegli agglomerati umani che i governi stentano a considerare persone.
Il giovane volontario, che chiamo per convenzione Vincenzo, salutandomi disse che l’unica parola inutile da pronunciare in India è speranza. La speranza uccisa quel 30 gennaio del 1948 con l’assassinio del Mahatma Gandhi.