Il procedere della quotidianità è per forza di cose fatto di incontri.
Come una confezione mai esaurita di caramelle, necessariamente ve ne saranno di felici, attesi, dal sapore che preferiamo, e ovviamente di meno graditi, ma il requisito essenziale, dal punto vista di chi scrive, è che si notino, che lascino un segno, e sì, risveglino in noi il desiderio profondo di raccontarli, di muoverci da un’immobilità che può essere anche solo delle idee.
Qualche giorno fa si è svolto il secondo incontro del seminario organizzato dalla Federico II che ospita tre lezioni di Domenico Scarpa, filologo ed editore di testi del Novecento e studioso dalla carriera e professionalità tanto composita e poliedrica da rendere necessario un rimando al curriculum in spazi altri.
La lezione del 28 marzo era incentrata sulla uniform edition delle opere di Primo Levi uscita nel 2015 negli Stati Uniti per i tipi di Liveright, che si sono fatti, così, promotori di un’operazione mai messa in atto prima: un autore italiano è stato tradotto in inglese – e non era mai successo, né con Dante o Machiavelli, né con Montale o Calvino – dalla prima all’ultima riga, in un’edizione unitaria, appunto, che vede l’opera omnia organizzata in un disegno unico, ovviamente avvalendosi di strumenti e competenze filologiche.
Il lavoro, curato da Toni Morrison, ha avuto in Ann Goldstein l’anima e la spinta fondamentale. Copy-editor presso il New Yorker e da vent’anni traduttrice di opere italiane, la Goldstein ha diretto un’operazione lunga sei anni che ha visto un gruppo di dieci traduttori al lavoro a tempo pieno sulle opere di Primo Levi. Tra le varie cose che l’hanno impegnata in prima persona, inoltre, si è occupata di tradurre gli apparati storico-critici dei volumi: strumenti realizzati dal Centro Internazionale di Studi Primo Levi, di cui Scarpa, che ha curato le notizie sui testi e la bibliografia, è consulente letterario-editoriale.
Quindi?
Cos’era la lezione?
Semplicemente il resoconto di un uomo del mestiere?
In realtà, con Domenico Scarpa non è mai solo così e, al contempo, lo è nel più assoluto dei modi.
Come era naturale che avvenisse, il discorso ha finito per vertere su quella che è la filologia d’autore, sulla falsa idea che la considera un esercizio più facile se confrontato con quello degli studiosi che devono fronteggiare complesse ricerche di manoscritti, problemi di varianti, lacune e danni, e che certo non possono contare sull’abbondanza dei materiali che sono invece disponibili per gli scrittori moderni – parliamo di interi archivi – e sull’immediata trasparenza e leggibilità di opere e intenzioni.
L’idea, appunto, è falsa. A ragione veduta, Giacomo De Benedetti, nella sua opera del 1971, Il romanzo del Novecento, sosteneva che la letteratura contemporanea avrebbe richiesto una filologia più impervia.
Che cos’è oggi affrontare testi di ottanta, novant’anni fa?
Che cos’è relazionarsi a un autore così vicino?
Questo articolo non vuole – né tantomeno potrebbe – essere una lezione o un saggio su una questione così complessa, ma tutt’al più il resoconto di un’impressione, di un incontro.
Domenico Scarpa, con la contagiosa verve retorica, lieve e trascinante al contempo, sempre entusiasta, ha finito per soffermarsi, quasi vi è inciampato, sul ricordo di una piccola questione che si è trovato ad affrontare durante i suoi studi su Natalia Ginzburg (sono sue le curatele delle edizioni Einaudi dei racconti di Piccole Virtù, delle raccolte di saggi Non possiamo saperlo. Saggi 1973-1990 e Un’assenza. Racconti, memorie, cronache 1933-1988, e dei testi teatrali Tutto il teatro).
In epigrafe a un suo lavoro, in riferimento alla sua traduzione del 1946 del primo volume della Recherche di Proust, la Ginzburg – figlia di Giuseppe Levi, professore universitario processato per antifascismo, e moglie di Leone Ginzburg, letterato e antifascista di spicco sulla scena culturale degli anni Trenta del secolo scorso, incarcerato, mandato al confino e morto nel 1944 a Regina Coeli in seguito alle torture subite dai tedeschi – appose una citazione, nello specifico “Il traduttore deve imparare servendo”, di Adolf Spemann, intellettuale tedesco e membro del comitato del Dipartimento Estero del Reich. Cosa c’è dietro una scelta del genere?
Per capirlo, è necessario analizzare i dati a nostra disposizione, e ricostruire l’accesso dell’autrice alla frase. In realtà, questa espressione in particolare in tedesco non esiste. La frase originale, scritta da Spemann nel 1931 e ripetuta poi in una conferenza del 1944 a Roma, poggiando su di un’ideologia che, come si può evincere dalle date, aveva preso una forma decisamente negativa, era “Il traduttore deve dominare servendo”. Considerando il periodo complicatissimo, la grandissima ricchezza e molteplicità di fonti e al contempo la forte depauperazione di testimoni nei soli quattro anni tra il 1943 e il 1946, con ricerche incrociate si è riuscito a scoprire che della conferenza del 1944 resta un solo opuscolo, oggi a Firenze. Ma fu qualcun altro a leggerlo per Natalia.
Difatti, la stessa frase, con la stessa variante, e – fondamentale – con la stessa sola apposizione del cognome, è presente nel libro Un’estate in campagna. Diario 1943 di Bonaventura Tecchi, esperto germanista e saggista italiano, classe 1896, che riprese l’espressione di Spemann in una considerazione sulla traduzione, sbagliando però a renderla in italiano, complice la stampa dell’opuscolo in caratteri gotici, scambiando herrschen per (er)lernern. Quindi, seppur complicato il risalirvi, il procedimento è stato semplice. Troppo semplice, di fatto resta nel campo dell’aneddotica, stimolante magari, ma pur sempre aneddotica. E una pratica filologica che vuole il filologo come mediatore tra gli autori e le loro opere e i lettori – e ha come obiettivo la produzione di lavori, che proprio perché finalizzati a raggiungere sempre anche solo un lettore in più, non possono essere inficiati dall’ottica della massificazione – deve andare oltre.
E per andare oltre deve leggere le filigrane.
Leone Ginzburg, dal 1936 in poi, intensificò ulteriormente il lavoro di traduzione dal russo e dal tedesco, e tra le tante cose che gli furono commissionate vi furono anche le Weltgeschichtliche Betrachtungen di Jacob Burckhardt, pubblicate nel 1905 da un editore tedesco, Wilhelm Spemann, padre di Adolf. Per anni, anche durante il confino a Pizzoli, il libro di Spemann padre fu presente in casa Ginzburg, percepito come un oggetto domestico con cui si ha familiarità.
Ed è attraverso questo filtro che va letta la scelta di un’espressione come quella adoperata da Natalia: se è vero che l’errore della traduzione si deve unicamente a Tecchi, aver letto semplicemente il cognome, solo il cognome, ha reso immediato il collegamento a un editore conosciuto, a un nome che era di famiglia.
Delicatamente nascosta, anche se paradossale, la scelta della frase da parte della Ginzburg non può che vedersi come un piccolo omaggio al marito e al suo lavoro, uno di quei rimandi che a chi scrive vengono inconsciamente naturali perché profondamente interiorizzati, un fremito della palpebra che non è ancora occhiolino di una moglie al marito, anche se a una distanza profondissima e lacerante come quella che la storia ha frapposto tra loro.
E sì, ha questo sapore intravedere una filigrana d’oro nel bianco e nero delle edizioni a stampa: sa di vita.
N.d.R. Per chiunque fosse interessato a incrociare altre scintille come queste, e quindi, per forza di cose, non può rinunciare a un incontro con gli addetti ai lavori, il terzo incontro del seminario si terrà il 20 aprile alle 15.00 alla BRAU in piazza Bellini.