La Johns Hopkins University dice stop alla raccolta dati. Tre anni fa, dopo che l’OMS ebbe definito la diffusione del coronavirus “pandemia”, la JHU creò il Coronavirus Resource Center, raccogliendo i dati ufficiali forniti dai Paesi su morti e contagi. L’aggiornamento si è fermato al 10 marzo 2023, una data che diverrà storica, con un bilancio di 676.609.955 casi accertati, 6.881.955 morti e 13.338.833.198 dosi di vaccino somministrate in tutto il mondo. Questo per renderci conto, in numeri, di quella che è la pandemia in ottica globale.
Uno degli argomenti caldi che imperversa in questi giorni sulle cronache italiane è la cosiddetta Inchiesta Covid. Il governo Meloni, sin dalla campagna elettorale, ha puntato molto sulla necessità di fare chiarezza nei riguardi della gestione della crisi pandemica, ma se pensate che l’indagine riguardi le vicende strumentalizzate da buona parte della stampa nazionale su mascherine, protocolli, effetti avversi dei vaccini, teorie complottiste e affini, vi sbagliate di grosso. I punti dell’inchiesta riguardano proprio il contrario di ciò che il mondo dei minimizzatori e dei complottisti ha sempre sostenuto e sfida chi ha anteposto economia a crisi sanitaria. In parole semplici, si sarebbe dovuto chiudere prima e di più.
È un’inchiesta che si scontra profondamente con le parole del Presidente Meloni pronunciate alla conferenza stampa di fine anno: «Il modello di privazione delle libertà conosciuto in passato non mi è parso così efficace e lo dimostra bene il caso cinese. Ci sono due punti ai quali non torneremo mai e sono il green pass e il lockdown». Quindi, perché FdI inneggia all’Inchiesta Covid quando questa vuole affermare l’esatto contrario della linea che il partito di Meloni ha tenuto in questi anni? Io un’idea me la sono fatta e vede da una parte il tentativo politico di indebolire Giuseppe Conte e dall’altra confermare le simpatie di un mondo complottista che, evidentemente, non ha letto i capi d’accusa dell’inchiesta.
Per risvegliare qualche coscienza dormiente e, soprattutto, far comprendere quanto sia difficile giudicare una pandemia a posteriori, ivi riporto alcuni fatti di cronaca: il 21 febbraio 2020, l’attuale Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Matteo Salvini, dice che bisogna chiudere tutto, proponendo di rafforzare i controlli per chi entra ed esce dal nostro Paese. Peccato che la sua posizione duri pochissimo perché sempre lui, dopo appena sei giorni, invoca di tornare alla normalità.
Il 27 febbraio è, però, la data conosciuta per l’aperitivo sui Navigli di Nicola Zingaretti con i giovani democratici, mentre Beppe Sala con l’hashtag #milanononsiferma invita i cittadini a uscire di casa e a non aver paura del virus. Messaggio simile arriva anche da Giorgio Gori, Sindaco di Bergamo, che il 26 febbraio dice ai bergamaschi di uscire, fare shopping, mangiare la pizza. Questo quando l’ospedale di Alzano Lombardo è in tilt e i medici di Bergamo gridano all’allarme chiedendo di restare a casa.
Ma torniamo a Matteo Salvini che nella confusione più totale ammette, nella trasmissione televisiva Piazza Pulita, il 26 marzo, il suo errore di valutazione sull’appello a riaprire. Così come lui molti, che avevano sottovalutato l’impatto del virus, fanno retromarcia. Il leader della Lega cambierà ancora idea arrivando il 16 aprile, in piena prima ondata, a chiedere di riaprire la Lombardia.
A oggi, proprio nell’Inchiesta Covid, Attilio Fontana, Presidente della Regione Lombardia recentemente rieletto, è indagato per omissione di adozione delle misure di contenimento e gestione adeguate e proporzionate all’evolversi della situazione. Emergono mail del 27 e 28 febbraio con le quali Fontana avrebbe sostanzialmente chiesto il mantenimento delle misure di contenimento già vigenti in Regione non segnalando criticità relative alla diffusione del contagio nei Comuni della Val Seriana, inclusi quelli di Alzano Lombardo e Nembro. Quindi, non avrebbe chiesto ulteriori e più stringenti misure di contenimento nonostante avesse piena consapevolezza che R0 aveva raggiunto valore pari a 2.
I filoni dell’indagine, chiusa dalla procura di Bergamo, sono sostanzialmente: mancata zona rossa – che avrebbe potuto risparmiare migliaia di morti – e mancato aggiornamento del piano pandemico che vede indagati, a Bergamo, gli ex Ministri della Sanità Roberto Speranza, Beatrice Lorenzin, Giulia Grillo e vari tecnici del Ministero. Inoltre, Ranieri Guerra, direttore aggiunto OMS, viene indicato come responsabile di false comunicazioni al procuratore e Silvio Brusaferro, presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, viene indagato come responsabile di truffa aggravata ai danni dello Stato. L’ISS smentisce le accuse di truffa imputate al proprio vertice.
Si tratta della vicenda dei tamponi con un costo da 3 euro l’uno che, secondo l’accusa di Bergamo, sarebbero costati circa 750 euro a pezzo. L’Istituto Superiore di Sanità fa sapere di non aver mai chiesto questa cifra e ha precisato che i costi nella prima fase pandemica comprendevano materiali per l’esecuzione dei test, DPI, materiale monouso e potenziamento dei macchinari. Abbiamo il diritto di fare chiarezza e di sapere.
Riguardo l’attuazione di una zona rossa nella provincia di Bergamo si stima, con il senno di poi, che essa avrebbe ridotto il numero di decessi, dal 1 marzo al 30 aprile 2020, di circa 4500 unità. Perizia effettuata da Giovanni Sebastiani (CNR) che rileva dati simili a quelli della perizia di Andrea Crisanti, consulente del tribunale di Bergamo per quanto riguarda la zona rossa di Nembro e Alzano.
Lo stesso Crisanti, il 29 febbraio 2020, in un’intervista video del Comune di Padova afferma di sentirsi al sicuro in città, come molti italiani che allora si sentivano sereni nelle proprie abitazioni. «A Padova in questo momento mi sento perfettamente tranquillo, non ci sono casi, vado al ristorante, giro per strada e così via […] chiaramente evito grossi assembramenti ma io so perfettamente che in questo momento a Padova non ci sono casi», continua poi dicendo di non sentirsela di sconsigliare le persone nell’andare al ristorante o in un negozio a fare shopping. La mia non vuole essere una critica alla persona di Crisanti, eccelso accademico e uomo di scienza, ma un provare a ritornare al sentire generale che ha accompagnato l’esordio della pandemia.
Il sentimento di tre anni fa, condiviso dalla maggior parte della popolazione e da molte istituzioni, è stato la sottovalutazione del rischio. Parlai con Keir Simmons di NBC poco dopo la pubblicazione del mio post del 10 marzo 2020 e alla domanda «Che cosa consigli?» gli risposi proprio questo, di non sottovalutare mai il rischio. Sì. Il minimizzare un qualcosa di così piccolo e invisibile è stato l’atteggiamento maggiormente diffuso.
Personalmente, non apprezzai lo slancio ottimistico di Giuseppe Conte allo Speciale Consiglio dei Ministri del 22 febbraio 2020. Il suo «Siamo pronti per gestire l’emergenza». La sanità pubblica, già agli inizi di quell’anno, vigeva in condizioni di sofferenza e questo senza una pandemia che complicasse ulteriormente le cose. Pronti non lo eravamo di certo ma è pur vero che, quando si è iniziata a prendere sul serio la situazione, il governo di allora ha cominciato a combattere in un clima che di chiusure non ne voleva proprio sapere, dove vigeva il primato del profitto sulla salute e campeggiava lo slogan di Confindustria The produzione must go on.
«Riapriamo, pazienza se muore qualcuno», erano le parole di Domenico Guzzini, presidente di Confindustria Macerata. Marco Bonometti, sempre Confindustria, incentivava a non chiudere e a non fermare la produzione: «Molto preoccupato per l’impatto che avrà la gestione del coronavirus sull’economia. Il contagio economico può fare persino più danni di quello virale». Così Vincenzo Boccia in un colloquio con il direttore del Foglio, Claudio Cerasa: «La situazione sembra stia sfuggendo di mano: come si fa a chiedere agli altri Paesi di far circolare gli italiani che abitano in Lombardia e in Veneto, quando ci sono regioni italiane che hanno scelto di non farli circolare? Avere un governo che si occupa di un’emergenza va bene, ma se il modo in cui viene gestita l’emergenza ha l’effetto di trasformare quel Paese in un’economia infetta – facendo chiudere le fiere, mettendo in ginocchio il nostro turismo, bloccando le regioni più ricche – bisognerebbe preoccuparsi con urgenza di come correre ai ripari».
Confindustria realizza, a fine febbraio, bergamoisrunning, un video che vuole rassicurare i partner commerciali all’estero. L’ipotesi di un’eventuale zona rossa si stima crei infatti un grave danno di immagine. Danno sul quale insiste anche l’attuale Presidente Giorgia Meloni che sceglie di fare opposizione durante i momenti delicati di una pandemia e che, all’epoca, rimprovera Giuseppe Conte di aver ammesso la presenza di falle nel SSN. Meloni, che chiama il Covid “fobia”, si preoccupa dell’immagine che l’Italia manda nel mondo e propone, come soluzione del secolo, di far giocare il derby Juve-Inter a porte aperte. Vi è un suo intervento video del quale riporto testualmente le parole: «Invece di vedere uno stadio vuoto, le immagini dei tifosi presenti allo stadio, l’uno accanto, all’altro potrebbero dare un altro racconto». Questo avviene il 27 febbraio.
Due giorni dopo, Giorgia Meloni si accinge a fare un video davanti al Colosseo dove in inglese rassicura gli stranieri: «Ci sono turisti ovunque, bar e negozi sono tutti aperti, le persone sono felici e il tempo è fantastico. Una normale situazione. Non abbiate paura a venire in Italia così come noi italiani non abbiamo paura a girare su tutto il territorio nazionale eccetto per una piccola parte della nostra nazione».
Sappiamo bene come va a finire. Il 9 marzo il governo estende le misure di contenimento in tutta Italia, l’intero Paese è in lockdown, il primo tra gli Stati occidentali ad adottare misure così severe e restrittive. Anche se le analisi a posteriori sono difficili da effettuare, io non oso immaginare che cosa sarebbe successo senza Giuseppe Conte, in quel momento, al governo. Le decisioni coraggiose, dopotutto, non portano mai popolarità e dire “riapriamo” cavalcando l’esasperazione delle persone è stato certamente più semplice.
Matteo Renzi illustra un piano di riaperture delle fabbriche prima della Pasqua 2020, il giorno successivo ai quasi 1000 morti in ventiquattro ore; anche Carlo Calenda si proclama contrario alla proposta del suo attuale alleato.
L’Inchiesta Covid, invece di essere considerata uno strumento per fare realmente chiarezza sulle questioni più nebulose della prima ondata pandemica, rischia di essere percepita come uno strumento politico nelle mani di populisti, partiti dell’attuale maggioranza di governo, antagonisti e persone con la memoria corta.