La vicenda dell’Ilva di Taranto rappresenta la sintesi dell’intero Paese. Chiuderla sarebbe una tragedia, tenerla in funzione – di fatto – già lo è. Non esiste una soluzione, la politica non è in grado di trovare rimedio e l’opinione pubblica si affanna a cercare colpevoli, laddove gli unici innocenti sono i lavoratori e le loro famiglie costretti a un’unica scelta: morire di fame o morire di cancro.
L’azienda siderurgica, al centro del dibattito istituzionale e sociale da anni, conta oltre 10mila dipendenti, di cui 8200 impiegati nella cittadina pugliese e 3500 nelle società dell’indotto, tutti – o quasi – a rischio del proprio posto di lavoro da quando il neo-proprietario, ArcelorMittal, ha intrapreso una battaglia di nervi con lo Stato italiano, minacciando di bloccare la produzione e chiudere in via definitiva. Il fulcro del contendere – secondo i principali esperti di economia e lavoro – starebbe nello scudo penale che il colosso indiano rivendica e che la componente grillina del governo, invece, non intende garantire per ciò che riguarda le responsabilità ambientali.
Il tema salute – assieme a quello della sicurezza relativo agli impianti – tiene banco, ormai, dal 2012, quando l’Ilva fu sequestrata alla famiglia Riva che l’aveva acquistata dallo Stato quasi vent’anni prima. Agli ex proprietari, in quella circostanza, furono bloccati anche 1.2 miliardi di euro su un conto svizzero – ancora al centro di un contenzioso legale –, soldi da impegnare per il piano ambientale che dovrebbe dare il via alla bonifica dei territori circostanti l’azienda tarantina, mettere in sicurezza i parchi minerali per evitare le nubi tossiche nei giorni di vento e far rispettare, finalmente, le leggi sull’inquinamento previste in Italia allo stabilimento.
A oggi, però, tutto è ancora fermo, nessuna azione concreta è stata intrapresa dalle forze politiche per tentare di dare risposte ai cittadini della località ionica, per esprimere vicinanza agli operai a rischio e alle famiglie costrette a convivere con la polvere rosa diventata il colore del dramma di Taranto, una nube altamente tossica che ha ritinteggiato dalle facciate dei palazzi, fino alle lapidi al cimitero, contribuendo al loro disseminarsi. L’incidenza dell’Ilva nelle patologie tumorali è del +500% tra i dipendenti dell’acciaieria rispetto al resto della popolazione della città e, in generale, del +4-5% per chi vive in siti contaminati e fino a un +9% nei giovanissimi tra 0 e 24 anni. A Taranto sono in drastico aumento le diagnosi di leucemia infantile.
Stare dietro ai numeri in costante aggiornamento relativi ai caduti a causa dell’Ilva è quasi impossibile, stimare i danni riconducibili alla presenza dell’azienda oggi di proprietà di ArcelorMittal comporta indagare su salute, sicurezza, agricoltura, allevamento fino al normale svolgimento della vita delle persone, costrette in casa nei giorni di vento, con scuole chiuse e intere aree della città sottoposte a sequestro. Nel 2010 – secondo il periodico Internazionale – sono finite nell’atmosfera 4159 tonnellate di polveri, essenzialmente diossina e piombo, e 11mila di ossido d’azoto e anidride solforosa.
Lo Stato, come detto, può poco. Basti pensare che sono già dodici i decreti governativi salva-Ilva emessi ma l’unico risultato delle inchieste penali, cominciate con quella a carico della famiglia Riva, è stato il rallentamento della produzione.
Il Premier Giuseppe Conte non mente quando annuncia ai dipendenti dell’Ilva la mancanza e l’incapacità di trovare soluzioni percorribili ed è giusto riconoscergli il coraggio della verità che non ha fatto mancare a un popolo già illuso dai roboanti proclami sbandierati qua e là dal partito che lo sostiene, il MoVimento 5 Stelle, che, tramite il Ministro Di Maio, annunciava mai più acciaio a Taranto, come si potesse davvero rinunciare – in tre mesi, dove gli altri non sono riusciti in vent’anni – a sei tonnellate di metallo ogni anno, corrispondenti all’1.2% del PIL della nazione. Dire questo, però, rende l’idea di quanto inefficiente sia il nostro Paese nel far rispettare la legge a chi sbaglia e saper porre poi rimedio, tutelando i cittadini e i loro diritti, dal lavoro alla salute, allo studio per i ragazzini.
Scegliere di vivere a Taranto vuol dire decidere tra morire di fame o morire di cancro. In molti, però, non hanno avuto e tanti ancora non avranno neppure facoltà di appellarsi ad alcuna di queste.