Il wc all’interno della stanza di detenzione è un trattamento inumano e degradante: questo è quanto aveva affermato il Tribunale di Sorveglianza de L’Aquila, riconoscendo al detenuto ricorrente, in ragione del pregiudizio sofferto, uno sconto di pena di 244 giorni, che aveva provocato a sua volta il ricorso del Ministero della Giustizia. Ricorso che la Cassazione ha ritenuto inammissibile con la sentenza 13660.
In particolare, i motivi del ricorso erano due: uno di carattere tecnico, riguardante la presunta errata applicazione del principio dell’onere della prova, l’altro riguardante invece la violazione dell’art. 35-ter della legge sull’ordinamento penitenziario con riferimento alla valutazione delle condizioni detentive.
Il Ministero della Giustizia ha sostenuto che il Tribunale di Sorveglianza aveva concesso il ristoro rispetto alla carcerazione patita dall’interessato presso l’istituto penitenziario senza valutare la situazione detentiva complessiva e attribuendo rilevanza decisiva alla presenza nella stanza detentiva di un wc, trascurando tuttavia che esso era separato dall’ambiente preposto all’espletamento delle funzioni di vita quotidiana da un muro di altezza pari a metri 1.50, quindi idoneo a evitare che l’uso avvenisse alla vista di terze persone, così salvaguardando la riservatezza.
Suscitano non poche perplessità tali dichiarazioni, come se si possa realmente credere che un piccolo muretto garantisca una privacy che è totalmente inesistente all’interno dei luoghi di detenzione, in cui la promiscuità e il sovraffollamento sono condizioni non più eccezionali.
La Terza Sezione Penale della Cassazione ha, dunque, dichiarato infondato il primo motivo di ricorso, ricordando che, seppur il Tribunale di Sorveglianza non avesse tempestivamente ricevuto i dati richiesti all’amministrazione penitenziaria, era però in ogni caso nelle condizioni di potersi pronunciare, secondo un consolidato principio, e ritenendo la lesione addotta dal ricorrente sufficientemente provata dalle sue allegazioni e restando invece in capo all’amministrazione penitenziaria l’onere di provare il fatto di segno contrario. Sul secondo punto invece, la Corte ha sì precisato che si tratta di un rilievo di merito su cui non esercita competenza, ma ha altresì ritenuto sufficientemente precisa la motivazione del Tribunale di Sorveglianza, sposando dunque la convinzione per cui la presenza del wc all’interno della stessa stanza dove il detenuto cucina, mangia e dorme senza un’effettiva separazione aveva inciso sulla condizione detentiva rendendola degradante e comprimendo non solo il diritto alla riservatezza ma anche la salubrità dell’ambiente.
Conclusioni che potrebbero sembrare banali e scontate, anche alla luce dei principi costituzionalmente garantiti e di quanto stabilito dalla legge sull’ordinamento penitenziario in tema di salute, condizioni igienico-sanitarie adeguate e salubrità dell’ambiente, ma che non sembrano essere tali per il Ministero della Giustizia, che ritiene forse dignitose le condizioni cui sono sottoposte le persone recluse nella maggior parte degli istituti di pena italiani. L’Associazione Antigone, nel suo ultimo rapporto, ha dichiarato che ben il 5% delle carceri visitate presenta ancora i servizi igienici a vista, nonostante precise direttive di segno opposto espresse anche a livello internazionale. Una percentuale che sebbene possa apparirci irrisoria, non è più tollerabile in un Paese civile o che si dichiara tale.
Ma questi non sono gli unici dati di cui il Ministero della Giustizia dovrebbe preoccuparsi – anziché ricorrere contro un irrisorio sconto di pena – e che configurano altrettanti trattamenti inumani e degradanti. Prendiamo in considerazione gli ultimi dati pubblicati da Antigone: nel 22.7% dei luoghi visitati non si può disporre di 3 metri quadri a persona, nel 9% degli istituti il riscaldamento non è presente in tutte le celle, nel quasi 50% delle stanze non vi è doccia, nel 20% non troviamo aree verdi per i colloqui e nel 15% sono totalmente assenti spazi per la socialità. E si potrebbe continuare all’infinito, con condizioni inammissibili che mettono in pericolo il diritto alla salute fisica e mentale e talune volte anche la stessa sopravvivenza.
Ricordiamo che con la sentenza Torreggiani l’Italia fu proprio condannata dalla Corte Europea dei Diritti Umani per aver perpetrato trattamenti inumani e degradanti ai danni delle persone detenute ricorrenti: non solo esse si trovavano stipate in uno spazio del tutto insufficiente, ma scontavano condizioni disumane di vita quotidiana, in tema di condizioni igieniche, illuminazione e salubrità dell’ambiente. A quella sentenza seguirono alcuni provvedimenti emergenziali con l’obiettivo di svuotare le prigioni e di rendere più umana la vita detentiva. Provvedimenti da cui l’Italia però sembra non aver imparato nulla: nonostante le misure legate alla pandemia, la popolazione detenuta sfiora le 55mila unità attualmente, ben al di sopra della capienza regolamentare e in spazi che oramai risultano inadeguati.
Siamo ben contenti che la Corte abbia confermato l’invivibilità di una situazione quotidiana di promiscuità e mancanza totale di riservatezza, ma quanto sperimentato dal ricorrente non è purtroppo una situazione straordinaria né eccezionale e ci conferma la necessità di procedere, nel più breve tempo possibile, a riforme strutturali del sistema penitenziario e del modo stesso di intendere la pena. Prima che sia troppo tardi.