Il rugby, in Italia, non è solo uno sport, ma un vero e proprio problema di identità culturale di cui è giunto il momento di provare a definire piani e contorni. Vediamo perché.
Attualmente, siamo di fronte a una nazionale maggiore, massima espressione del movimento rugbistico del nostro Paese, che ha perso più di ogni altra squadra partecipante al torneo delle 6 Nazioni da quando siamo entrati a farne parte. Il 1997 è lontano, troppo sia nel tempo che nelle capacità prestazionali mostrate da quegli eroi di Grenoble che con la loro impresa umana e sportiva consentirono all’Italia di guadagnarsi di diritto un posto tra le grandi d’Europa, trasformando il torneo più antico del mondo da 5 a 6 nazioni, appunto. Oggi, infatti, la situazione è profondamente diversa, con i risultati che continuano a non arrivare e gli stadi che ricominciano a svuotarsi dopo un periodo di stabile crescita ed entusiasmo. Si sta facendo un grande lavoro di base, si ostinano ad annunciare in occasione di ogni conferenza stampa pre e post-partita i massimi vertici del movimento, ma qualcosa comunque continua evidentemente a non funzionare. Cosa?
Investimenti mancati, il Flaminio che, in attesa di diventare lo stadio ufficiale di tutte le nazionali italiane di rugby, cade rovinosamente a pezzi, scelte strategiche sbagliate, formazione e comunicazione inefficaci. Insomma, una serie di concause combinate tra loro che stanno conducendo il movimento rugbistico nostrano verso un lento, inesorabile declino o, almeno, così sembrerebbe. E allora su cosa si potrebbe agire? Quali sono i punti di forza da valorizzare?
Intanto, cominciamo subito con il ricordare che in Italia oltre a una nazionale maschile ce n’è anche una femminile, capace di giocare un rugby semplice, lineare, solido, coraggioso, grintoso e dominante. I risultati finora conseguiti con Scozia e Galles lo dimostrano: non è che forse converrebbe iniziare a prendere seriamente in considerazione il versante rosa di questo rugby, che vuole invece ostinatamente tingersi di un azzurro ormai sempre più pallido? Dopotutto, l’ultima prestazione poco al di sopra della mediocrità da parte della nazionale maschile, ovviamente insufficiente per evitare la sconfitta con i gallesi, parla quanto mai chiaro. Anche se il vero protagonista dello scorso 9 febbraio è stato, assecondando il trend anticipato in apertura, sicuramente lo stadio in cui la partita si è giocata, ovvero l’Olimpico di Roma, praticamente vuoto. Lampante messaggio di disaffezione rivolto alle alte sfere della F.I.R. (Federazione Italiana Rugby), che attraverso il linguaggio del cultore medio con cittadinanza poco rugbistica e molto italiana potremmo tradurre come segue: piuttosto che spendere soldi per andarmi a prendere freddo e delusione, tanto vale starmene a casa e vedermi un po’ di vero rugby comodamente seduto sul divano, con TV stabilmente sintonizzato su DMAX e birra messa di fianco senza soluzione di continuità.
Con un linguaggio un po’ più competente e, dunque, necessariamente carico di sano disincanto, potremmo invece dire che forse conviene fermarsi un attimo, fare un passo indietro per imparare a giocare a rugby con chi è simile a noi in termini prestazionali per tornare a far crescere il movimento dal basso investendo in comunicazione, formazione di atleti e, ancor di più, allenatori, cancellando il pressapochismo che si respira, purtroppo, soprattutto nei settori giovanili. Inoltre, bisognerebbe promuovere se non il professionismo, quantomeno la professionalità, iniziando con il mettere in condizione innanzitutto le scuole di dotarsi delle strutture necessarie per svolgere un’attività sportiva che sia all’altezza di una tale definizione, sostituendo ai docenti gli educatori e alle palestre chiuse campi all’aria aperta.
Ma al di là di questo discorso, che è pur fondamentale non solo allo scopo di tornare a far crescere il movimento rugbistico dell’intero Stivale, c’è un’altra componente culturale che denuncia la debolezza originaria al pari del peccato su cui questo strano Paese è stato fondato e costruito, ovvero la ricercata e perpetrata dualità Nord-Sud, che ancora oggi sancisce la divisione interna di uno Stato che fatica a trovare ragioni di unità sufficientemente profonde da consentirci di andare in campo in maniera univocamente compatta.
Il rugby non è uno sport di squadra qualunque, ma lo sport di squadra per eccellenza, in cui l’elemento collettivo prevale su quello individuale. Se non ti riconosci pienamente nel gruppo e nei suoi valori, difficilmente sarai disposto ad andare in campo a prender botte e fare meta per garantire l’interesse superiore legato al successo del tutto in cui ciascuna singola parte si fonde. È l’interesse generale che giustifica quello particolare, non viceversa. In altre parole, quando giocano Francia, Inghilterra, Scozia, Irlanda e Galles è scontato veder competere rispettivamente tra loro francesi, inglesi, scozzesi, irlandesi e gallesi, ovvero persone che si identificano culturalmente con la maglia che indossano. La nazionale italiana è invece, purtroppo, popolata da semplici giocatori di rugby che indossano una maglia il cui colore è già di per sé un furto di dignità, oltre che di un’identità mai pienamente definita, se non in negativo. Prima di poter fare una buona squadra, bisognerebbe quindi provvedere a definire, in positivo, proprio quegli italiani di cui ancora non si vede nemmeno l’ombra, soprattutto alla luce delle ultime dichiarazioni rilasciate dall’attuale Ministro dell’Istruzione, al secolo Marco Bussetti, sugli insegnanti del Sud, replicando quel vizio antico per cui chi è causa del proprio male pianga se stesso. Peccato, però, che i mali del Meridione siano venuti a galla solo a seguito di un furto sistematicamente perpetrato sin dal 1860, ancora oggi ipocritamente raccontato all’interno di tutte le scuole del Regno come Unità d’Italia.
Ma andiamo oltre, cerchiamo di continuare a vedere il bicchiere comunque mezzo pieno e godiamo dei suddetti risultati positivi ottenuti da parte della nazionale femminile. Poiché, come al solito, ogni volta che gli uomini non ce la fanno più, ci si accorge che le donne non solo non si sono mai tirate indietro, ma sono sempre state lì a tirare la carretta della dignità di un intero popolo che, intanto, ha trovato anche il tempo sufficiente per potersi godere in tutta serenità le sterili polemiche legate alla vittoria sanremese di Mahmood, figlio di quel Mediterraneo che ci lega a tutte le terre che in esso bagnano i loro piedi e di cui, senza saperlo, parliamo tutte le lingue.
Gli antichi Romani hanno dovuto rapire le Sabine per iniziare a dar vita a un popolo e, allora, perché non affidarci anche noi a loro, alle donne? Senza ovviamente rapirle, ma ammirandole. Saranno poi loro, in definitiva, le potenziali mamme di tutti i futuri rugbisti o le future rugbiste di cui il movimento potrà avveniristicamente nutrirsi. Sono loro che li o le manderanno a scuola, che li o le spingeranno probabilmente a innamorarsi del mondo della palla ovale. Sono loro che finora non hanno mai mollato nonostante gli stadi da sempre vuoti e le TV colpevolmente prive di richiami alle loro imprese, che dovrebbero invece diventare una volta per tutte le nostre.
Le ragazze stanno bene, cantava Vasco Brondi in un suo album del 2014. Oggi non solo stanno bene, ma per fortuna sono anche in grado di vincere. E allora diamo loro più che fiducia, ripartiamo dalla loro grinta, andiamo a guardarle, rendiamo onore e giustizia agli sforzi di chi porta alta la bandiera di una nazione senza popolo, o che ancora non si è resa conto di averne uno, ma che proprio a partire da queste ragazze, che vanno in campo con il trucco sugli occhi e le unghia smaltate, potrebbe trovare una rinnovata ragion d’essere unito, al cospetto di tutti quei fratelli e, soprattutto, tutte quelle sorelle d’Italia di fronte alle quali, convinciamoci, è ormai arrivato il momento di prendere in seria e sistematica considerazione l’idea di cominciare a inchinarsi e porgere incondizionatamente la chioma.