Al Summit del Consiglio Europeo, il veto sovranista ha fatto saltare l’accordo sulla neutralità climatica, non rendendo esplicito e fattuale l’obiettivo dell’Unione Europea per il raggiungimento delle emissioni zero entro il 2050, coerente con il dettato dell’Accordo di Parigi sul clima del 2015. Sebbene più di venti Stati avessero dichiarato, nei giorni precedenti, il loro sostegno al blocco delle emissioni di CO2 entro la metà del secolo, c’è stata l’opposizione di tre Paesi del gruppo di Visegrád – Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia alle quali si è aggiunta l’Estonia – e il testo conclusivo ha ribadito l’idealità di una politica dell’UE neutrale sul clima, ma senza alcun riferimento temporale per il suo reale raggiungimento. La prossima riunione del Consiglio ci sarà nell’ottobre di quest’anno.
Il Gruppo di Visegrád è formato da Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria e, in effetti, costituisce un’alleanza culturale, sociale e politica che si propone soprattutto la cooperazione economica ed energetica, cercando la possibile integrazione degli Stati nell’Unione Europea di cui fanno parte. La denominazione di questo gruppo di Paesi deriva dalle riunioni che i leader della Cecoslovacchia, dell’Ungheria e della Polonia tennero a Visegrád il 15 febbraio 1991, con un simbolico rimando al Congresso medioevale svoltosi nella città ungherese sulle rive del Danubio nel lontano 1335, tra Giovanni I di Boemia, Carlo I d’Ungheria e Casimiro III di Polonia per cercare di contrastare l’espansionismo asburgico.
Gli Stati del gruppo di Visegrád, per le pratiche economiche più che nei riferimenti storici, sono tra quelli più economicamente prosperi tra i Paesi post-comunisti e vantano un’economia di mercato con un tasso di crescita tra i più alti, in riferimento alla media statistica del continente europeo. Una parte determinante di questo benessere materiale, che influisce sugli equilibri economico-politici interni e sulle relazioni con gli altri Paesi d’Europa e del mondo, consiste nel massiccio sfruttamento di combustibili fossili, in special modo il carbone, per la produzione di energia.
In altre parole, le politiche nazionaliste dei governi del gruppo sono orientate alla crescita economico-finanziaria a tutti i costi per mantenere il consenso popolare e sostenere lo sviluppo. Ecco il perché del montante euroscetticismo, in questi Paesi dalla forte involuzione della rappresentanza democratica, dove i processi decisionali operati dall’Unione Europea – non solo sulle politiche ambientali – appaiono come un freno insopportabile agli interessi vitali e lesivi dell’identità nazionale e culturale, soprattutto quando si confrontano con la possibilità di legare i fondi che vengono dall’adesione ai trattati dell’Unione alle politiche migratorie adottate dalle governance nazionali, particolarmente dure contro l’immigrazione, al di là di ogni umana solidarietà, così come invece è espressamente indicata negli accordi redatti per le relazioni internazionali.
Abbiamo più volte riferito sui fallimenti delle Conferenze tra le parti, che hanno riunito in varie occasioni le delegazioni di quasi 200 Stati membri della UNFCCC (United Nations Framework Convention on Climate Change), vale a dire la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, conosciuta anche come Accordo di Rio e firmata nel 1992. L’ultima tra queste – la Cop24 – tenutasi nella prima parte di dicembre dell’anno scorso a Katowice, in Polonia, è stata quella che ha visto, all’inizio dei lavori, la conferma pronunciata dal Presidente polacco Andrzej Duda sulla preminenza della sovranità energetica sopra tutte le altre considerazioni ideali e formali. In margine ai lavori congressuali, tuttavia, l’evento che ha avuto una maggiore eco massmediatica, e poi un seguito reale nelle strade delle città del mondo, è stato il famoso intervento della sedicenne attivista svedese Greta Thunberg, che ha reso famoso e allargato la base popolare del movimento Fridays for Future, nato per arrestare gli effetti disastrosi del global warming già in atto in varie zone del pianeta che causa i cambiamenti climatici, dovuti alle sconsiderate emissioni di gas inquinanti prodotti in larga parte dalle attività industriali intensive.
Ma in questo ennesimo passo indietro provocato dall’egoismo sovranista nei confronti dei valori e degli interessi della UE, invece, quale ruolo può avere il governo italiano? La principale preoccupazione per il litigioso esecutivo formato da pentastellati e leghisti è attualmente costituita dalla procedura d’infrazione in corso da parte di Bruxelles nei confronti della politica economico-finanziaria del Bel Paese. In seconda battuta, le politiche ambientaliste nostrane sono da troppo tempo del tutto deficitarie in una nazione caratterizzata dall’eterno dissesto idrogeologico del suo frastagliato territorio, che necessiterebbe di una posizione sull’emergenza climatica come quella adottata dalle governance più lungimiranti degli Stati europei.
I più recenti studi sui problemi dell’ambiente fatti a Bruxelles hanno sancito, infatti, una bocciatura da parte dell’UE perché il nostro Paese è quello con il più alto numero di aree a rischio a causa dello smog e delle ondate di calore e, in un’analisi più ampia, un rapporto redatto dall’Agenzia europea per l’ambiente, comparando gli indicatori socio-sanitari su ambiente, salute e demografia, ha indicato nelle diseguaglianze economiche e sociali le cause che determinano l’aumento della vulnerabilità della Penisola nei confronti dell’emergenza climatica.
Appare difficile che la governance italiana, insomma, sia capace di operare una mediazione tra Francia, Germania – dove i leader Macron e Merkel sono in difficoltà, dopo la protesta dei Gilet gialli e il trionfo dei Grünen, i Verdi tedeschi, alle ultime Elezioni Europee – e i Paesi del gruppo di Visegrád. Anche perché questi ultimi fanno parte del fronte europeo di una più ampia internazionale sovranista. Sono ambigui, inoltre, i rapporti economico-finanziari che legano questo vasto schieramento alla dipendenza energetica italiana e continentale nei confronti della Russia di Putin. Il leghista Salvini, per fare un esempio, pur vantando un rapporto di amicizia con il leader ungherese Viktor Orban, considerato l’esponente di spicco del sovranismo europeo, difficilmente potrebbe interpretare il ruolo di mediatore, dal momento che la battaglia per la neutralità energetica nel Vecchio Continente è nata da un’idea sviluppatasi nei Paesi scandinavi e proposta anche dal leader liberale ed europeista polacco Donald Tusk, avversario dell’attuale governance al potere in Polonia e quindi detestato anche dall’intero schieramento sovranista.
La politica contro le emissioni zero non conviene proprio a nessuno, è evidente, e l’agire politico egoista e di sguardo corto dei sovranisti, orientati nei loro processi legislativi a privilegiare politiche nazionaliste e conservative della sovranità energetica, non tengono conto delle esigenze comunitarie mettendo sempre più in difficoltà, quindi, il benessere reale dei cittadini europei. L’opposizione alla politiche ambientaliste dell’UE aggraveranno il degrado dell’ambiente naturale dell’intero pianeta, che potrà avere ricadute sociali catastrofiche. D’altronde, come abbiamo più volte ripetuto, è tristemente noto che il mondo contemporaneo non è governato da statisti che pensano al futuro delle prossime generazioni, ma da tanti, troppi politici (e dai loro gruppi di riferimento economico-finanziari) che sono ossessionati sempre e soltanto dalle prossime elezioni.