Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è caduta sulla tovaglia. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri, il sasso era grande come una montagna e sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi.
Così scriveva Dino Buzzati sul Corriere della Sera, l’11 ottobre 1963. Sono parole scelte con cura nei due giorni dopo la tragedia. Quel 9 ottobre invece, quando l’acqua e la morte erano appena cadute dal cielo, la radio locale disse soltanto: Longarone non c’è più. Un epitaffio scarno, brutale.
Sono passati sessant’anni da queste parole, sessant’anni dal disastro del Vajont. E lo sappiamo tutti (o quasi) cosa accadde in quell’ottobre: un’enorme frana – 260 milioni di metri cubi di terra – si staccò dal Monte Toc, sulle Prealpi bellunesi tra il Friuli-Venezia Giulia e il Veneto, e cadde nel bacino artificiale del Vajont.
La furia delle acque che esondarono a causa della frana cancellò prima Erto e Casso, due piccoli paesi vicini alle rive del bacino artificiale, e poi Longarone, allo sbocco della valle. Furono circa 2000 le vittime, tra cui 487 diciottenni.
Ecco la valle della sciagura: fango, silenzio, solitudine e capire subito che tutto ciò è definitivo; più niente da fare o da dire. Cinque paesi, migliaia di persone, ieri c’erano, oggi sono terra e nessuno ha colpa; nessuno poteva prevedere. Questo lo scriveva Giorgio Bocca, giornalista che, assieme a Buzzati, sostenne con forza la tesi della catastrofe naturale.
Nessuno ha colpa; nessuno poteva prevedere. Già, perché il bicchiere di Buzzati non si è rotto: la diga è rimasta intatta, non ha ceduto. In tempi atomici si potrebbe dire che questa è una sciagura pulita, gli uomini non ci hanno messo le mani: tutto è stato fatto dalla natura che non è buona e non è cattiva, ma indifferente – continuava Bocca.
Già ai tempi, però, c’era chi non era d’accordo. C’era chi non lo chiamava disastro né sciagura, ma assassinio. Infatti, addossare il disastro del Vajont alla natura matrigna, entità imprevedibile e fuori dal nostro controllo, era solo un tentativo di deresponsabilizzazione dei veri autori di questa strage. Per individuarli, non serviva andare troppo lontano.
Primo mandante: il conte Volpi di Misurata, ex ministro fascista a cui ancora oggi dedichiamo la Coppa Volpi nell’ambito della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Il conte era fondatore e presidente della SADE (Società Adriatica per l’Energia Elettrica), uno dei monopoli elettrici più potenti dell’epoca.
Nel 1940 i tecnici della SADE individuarono nella valle del Vajont il luogo più adatto per costruire un progetto pazzesco dal punto di vista ingegneristico: un bacino artificiale che avrebbe alimentato tutto il Triveneto. Ai tempi l’idroelettrico era la prima fonte di energia d’Italia e il bacino sarebbe stato un portento per l’economia del paese.
Per creare un bacino artificiale, ci vuole una diga: per realizzarne uno enorme, ci vuole una diga da record. La SADE chiama Carlo Semenza, uno dei più esperti progettisti e costruttori di dighe dell’epoca, e un pull di tecnici. Tra loro anche Giorgio Dal Piaz, il vero e proprio padre della geologia italiana. Cosa può mai andare storto?
Va che Dal Piaz – dopo aver chiesto a Semenza di procurargli il lavoretto con la SADE per arrotondare la pensione da docente universitario – non fa la sua perizia geologica: dice all’amico capo progettista di farla lui, tanto poi la firmerà comunque.
I lavori iniziano così, nel 1956: senza una effettiva autorizzazione ministeriale e senza una perizia fatta (effettivamente) da un geologo. In contemporanea, iniziano le prime polemiche: agli abitanti della valle la diga non va giù. E c’è da aspettarselo: l’acqua sommergerà le loro case, i loro terreni, le strade per arrivare negli altri paesi. In più, la SADE è disposta a pagare solo pochi spicci per i beni espropriati forzatamente.
Delle loro lamentele non importa a nessuno. Anzi, importa a una persona sola: Tina Merlin, giornalista dell’Unità. La Merlin decide di dare voce agli abitanti della valle e di indagare sull’opera stessa. Le basta poco per rendersi conto dei pericoli a cui la popolazione va incontro se la diga fosse completata, ma la sua inchiesta non viene ascoltata: ci ricava solo una denuncia per diffamazione da parte della SADE.
Nel 1959 il geologo Edoardo Semenza, figlio del capo progettista Carlo, in una ricognizione nota una enorme trincea sulla montagna. È una frattura lunga tre chilometri: il segno di una frana preistorica, la massa è stimabile in almeno 200 metri cubici di roccia. Dal Piaz non è più il geologo di riferimento, perciò Semenza si confronta con Leopold Muller.
Muller, considerato un pioniere della geomeccanica, minimizza. Sì, ammette che la frana c’è, ma ritiene che non sia in procinto di cadere. Edoardo Semenza, giovane e neolaureato, sparisce di fronte alla nomea di Muller: viene considerato da tutti un catastrofista, un ragazzo inesperto, e resta inascoltato.
La SADE decide di non riferire alle autorità della frana, né delle piccole scosse sismiche che si stanno verificando. Muller è convinto che, abbassando il livello dell’acqua, la frana si bloccherà: hanno la soluzione in pugno, perché rischiare l’interruzione di un’opera così importante per il paese? La diga viene completata nel 1959: grande festa.
Nel 1960 si cominciano le prove di invaso. Il 4 novembre di quell’anno si verifica una prima frana: 700mila metri cubi di terra e roccia finiscono nel bacino. Nessun danno a cose o persone, solo un’ondina. Non è la paleofrana rivelata da Edoardo Semenza, ma una nascosta dall’altro lato della montagna. La popolazione della valle trema, si agita, urla: e se cade una frana più grande? Ancora una volta, lo Stato non la ascolta.
Al Ministero dei Lavori Pubblici arrivano solo documenti con risultati attenuati, il resto delle perizie viene chiuso nei cassetti delle università. Dal 1961 al 1963 vengono introdotte modifiche per limitare il più possibile le possibilità di smottamento del terreno circostante la diga. La SADE prova di tutto, certo, ma non si ferma.
Va avanti col consenso degli organi di controllo, con il compromesso del potere politico e degli esperti del settore. Va avanti senza evacuare, senza allertare, senza svuotare il bacino. Va avanti fino alla notte del 9 ottobre 1963, di cui ormai conosciamo l’epilogo: il bicchiere, l’acqua, la tovaglia, le creature umane che non potevano difendersi.
Silvia Morosi e Paolo Rastelli scrivevano: La tragedia del Vajont è la storia di tante opere che vengono portate a termine escludendo intere popolazioni da scelte che mettono in gioco la loro vita. È la storia di interessi economici e politici e di responsabili che si nascondono dietro una parola: fatalità.
Perciò, ricordarla oggi è importante più che mai. Oggi che le parole fatalità, sciagura e catastrofe naturale vengono usate per scusare incendi, alluvioni ed esondazioni in tutta Italia. Sì, perché sono state le parole d’ordine per l’Emilia-Romagna, la Sicilia, la Calabria, la Lombardia, la Puglia.
Marco Paolini scriveva che il Vajont non è una storia che appartiene solo al nostro passato, ma anche al nostro presente. Ogni volta che la colpevole sottovalutazione di un rischio mette a repentaglio delle vite umane, abbiamo un nuovo Vajont.
In un dettagliato articolo abbiamo raccontato di come la cementificazione selvaggia della Pianura Padana stia mettendo in pericolo vite umane, dando la possibilità a fiume esondati o alluvioni improvvise di spazzare via interi paesi. Abbiamo cercato di dare voce ai cittadini dei territori esondati dell’Emilia-Romagna che hanno perso tutto durante la scorsa emergenza climatica, e che chiedono solo di fermare il consumo di suolo.
E invece il governo prova di tutto, ma non si ferma. Nonostante l’ISPRA e lo SNPA (organizzazioni di esperti unanimi nel denunciare i rischi del consumo di suolo) abbiano chiesto a gran voce una normativa ad hoc, tutto tace. Così, in questo silenzio assordante, i colossi dell’e-commerce, dell’edilizia e della grande distribuzione continuano a edificare in zone a rischio idrogeologico.
Il bicchiere, l’acqua, la tovaglia. Il modus operandi è lo stesso, ma non è una frana, stavolta, l’origine di tutto: è il cambiamento climatico. Ne abbiamo scritto tante volte, fino a spellarci le mani: il modo in cui ci rapportiamo alle risorse del pianeta è tossico e distruttivo. Stiamo alterando gli equilibri della natura e le conseguenze sono proprio i fenomeni climatici avversi. Non è la natura matrigna, non è la fatalità: siamo noi.
La corsa ai profitti non si ferma, e il nostro governo (come tutti gli altri) preferisce tutelare i proventi di industrie e grandi imprese invece delle migliaia di creature umane che non possono difendersi. Se volete potete chiamarci catastrofisti, come Edoardo Semenza: non ci farà tacere. È inaccettabile che, a sessant’anni dal Vajont, si decida ancora una volta di sottovalutare un rischio che mette a repentaglio vite umane.