Andare o non andare? Ha senso parlare di etica di viaggio nel XXI secolo? È lecito visitare un Paese non considerando le violazioni dei diritti umani che compie? È lecito non visitarlo per le sue scelte politiche optando per il boicottaggio del turismo? La travel blogger Eleonora Sacco, esperta in Russia ed ex URSS, ha lanciato il dibattito sui suoi canali social per un confronto tra diversi viaggiatori e diversi modi di intendere il viaggio col significato politico che – volente o nolente – ogni partenza implica.
C’è da premettere, com’è ovvio che sia, che è impossibile giungere a una conclusione unanime perché viaggio ed etica si prestano a infinite interpretazioni: è possibile, però, offrire spunti di riflessione per arrivare a una personale concezione di cosa sia il viaggio e quale il suo significato privato e pubblico. Buon punto di partenza può essere la definizione fornita dalla Treccani: l’etica è ogni dottrina o riflessione speculativa intorno al comportamento pratico dell’uomo, soprattutto per indicare quale sia il vero bene e quali i mezzi atti a conseguirlo, quali siano i doveri morali verso se stessi e verso gli altri, e quali i criteri per giudicare sulla moralità delle azioni umane. Parlare di etica di viaggio, quindi, significa stabilire un sistema di valori in base al quale giudicare un Paese. Sistema che non è universale e non per forza migliore di altri.
Tuttavia, non esiste ancora un modo per separare il viaggiatore dalle circostanze in cui vive, dalle opinioni che si forma come membro di una società e dai vantaggi e i limiti che ne scaturiscono. Parlare da europei, e in particolar modo da italiani, non è assolutamente un dato inerme, privo di conseguenze, il nostro posizionamento socio-culturale ci impossibilita a un sapere puro e ci consente di conseguire solo un sapere politico. Viaggiare, quindi, non è un atto neutrale, così come anche la traduzione da una lingua all’altra è frutto di una selezione e un adattamento tutt’altro che arbitrari. Viaggiare non è un’attività laica e non è super partes, è la nostra testimonianza nel mondo, abbiamo la responsabilità di ricordarcene.
Il turismo può essere una potentissima arma, lo insegna la storia. Basta guardare a Pechino, in grado di influenzare e dirottare il proprio turismo a seconda delle alleanze politiche col Paese di destinazione. In continuazione, la Cina promuove mete turistiche per consolidare i rapporti coi Paesi “amici” e al contrario blocca il turismo laddove non lo reputa opportuno per motivi politici, danneggiando intere zone che hanno in questo settore la fonte principale dal sostentamento. Successe con Taiwan, regione amministrativa a statuto speciale, nonostante la Presidente Tsai Ing-wen avesse ricordato che usare i turisti come arma politica serve solo ad aumentare le tensioni tra i cittadini. Successe nel 2017 quando il governo cinese si allarmò per il sistema missilistico della Corea del Sud, riducendo il flusso verso l’isola del 40% e minacciando con gravi sanzioni le agenzie di viaggi. Succede oggi, con la difficile situazione che lega il Paese asiatico a Hong Kong.
Ma cosa ne è dell’Occidente? Da europei abbiamo ormai introiettato un’idea tanto semplice quanto sbagliata: si può viaggiare ovunque, senza limitazioni di alcun tipo, purché vi sia disponibilità economica. L’Europa e il Nord America si trovano in una condizione molto più facile da districare in termini di diritto internazionale, così ci siamo abituati a muoverci, ad andare in vacanza ma non ad andare in viaggio. Ormai il viaggio è mercificato, partire per l’Occidente non è altro che un bene di consumo. Tra l’acquirente e il Paese di destinazione non c’è nessun ostacolo di tipo umano, etico e politico, soltanto i soldi si frappongono tra i due. Il turista comprerebbe di tutto, ostaggio di tour operator e grandi compagnie di volo disposte a vendere senza promuovere un’esperienza consapevole. Partire ci sembra dovuto, lo riteniamo un diritto piuttosto che un privilegio, credendo di non avere limiti e sorprendendoci che al mondo gran parte della popolazione è vincolata nei suoi spostamenti, non può avere il visto, ha il timbro sbagliato sul passaporto sbagliato e le è precluso perfino l’accesso.
Spesso si parla in modo improprio di viaggi per partenze che poco si interessano della dimensione antropologica e culturale di un luogo ma che si limitano a quella bellezza immediata, naturalistica e artistica, non riuscendo ad andare oltre. Todorov scrive in Noi e gli altri che il turista è frettoloso non solo perché l’uomo moderno lo è in generale, ma anche perché la visita fa parte delle sue vacanze e non della sua vita professionale, i suoi spostamenti all’estero sono limitati entro le sue ferie retribuite. La rapidità del viaggio costituisce già una ragione della sua preferenza per l’inanimato rispetto all’animato: la conoscenza dei costumi umani richiede tempo, ma non sempre si è interessati a un’indagine più profonda.
Ma se il viaggio è sentito come un diritto, come ci si comporta quando si vola verso Paesi che, invece, non rispettano i diritti? Per rivendicare l’importanza umana e politica della partenza – ormai banalizzata – negli ultimi anni si è molto parlato di boicottaggio e di turismo etico, collegando le due tematiche attraverso quell’approccio responsabile e cosciente che un viaggiatore dovrebbe avere. La questione ha la sua origine con il primo tentativo della storia di boicottaggio turistico ai danni del Myanmar (ex Birmania) promosso nel 1999. La battaglia fu sostenuta dal Parlamento Europeo e dall’Associazione Italiana per il Turismo Responsabile, sotto le sollecitazioni del Premio Nobel per la pace Aung San Suu Ki contro la violazione dei diritti umani della dittatura militare. Le imprese europee bloccarono gli investimenti in Myanmar e le strutture turistiche realizzate col lavoro forzato. L’esito del boicottaggio, però, risultò una vittoria soltanto parziale.
I boicottaggi nel turismo, funzionano davvero?, si chiede Cath Urquhart, giornalista del Times. Dovremmo fare tranquillamente il nostro viaggio in un dato Paese se dissentiamo totalmente con il modo in cui questo è governato?. Quel che emerge dai suoi studi sociologici è l’inutilità di un boicottaggio totale e la necessità di un boicottaggio mirato a un bersaglio netto e identificabile. La questione, infatti, è il coinvolgimento delle masse popolari colpite, piuttosto che un attacco diretto ai regimi. Come scrisse Tony Wheeler, fondatore della Lonely Planet insieme alla moglie Susan, sulla Birmania, una parte dei soldi finirà inevitabilmente nelle sporche tasche della giunta militare ma i visitatori sono un contatto estremamente importante con il mondo esterno. Andate in Myanmar, viaggiate, parlate con le persone e vi garantisco che ciò che sentirete sarà “vieni” e non “stai lontano”.
Il boycott parziale, promosso ad esempio per le Maldive negli ultimi anni, mira solo alle strutture e ai resort appartenenti al Presidente Gayoom e ai suoi stretti alleati. Un blocco turistico integrale come quello incoraggiato nell’ultimo mese contro la Turchia per la vicenda curda sarebbe solo controproducente e inutile, penalizzando i cittadini locali dipendenti dalla vendita turistica. Il boicottaggio parziale, inoltre, consente al viaggiatore di assolvere la responsabilità etica che ha: partire, vedere, osservare e tentare di comprendere la realtà. Farsi carico del bagaglio umano e del contatto diretto col popolo, con la sua mentalità e cultura; tornare, far tesoro dell’esperienza vissuta e portare in un continente spesso molto distratto le voci di persone che, altrimenti, non avrebbero voce.
Evitare un Paese significa invece semplicemente consentire che le cose negative accadano senza che nessuno le noti. La condanna all’isolamento non è da sottostimare, viaggiare potrebbe essere una tecnica per un maggior controllo sui regimi, per osservare e limitare in tempo dovuto richiamando l’attenzione dell’opinione pubblica a beneficio della tutela dei diritti umani. La stessa possibilità di vedere coi propri occhi – e non attraverso terzi – potrebbe promuovere la sensibilizzazione su tematiche importanti. Esperti internazionali del turismo etico sconsigliano di farsi coinvolgere nel facile entusiasmo del boicottaggio perché non si può identificare un intero popolo con le scelte del governo, spesso antidemocratiche, spesso largamente non condivise. Helen Jennings, specializzata in turismo responsabile, sostiene questa tesi e promuove una particolare cura alle infrastrutture, al loro posizionamento e ai legami politici, incentivando voli per Giamaica, Emirati Arabi e Paesi africani spesso evitati per il reato dell’omosessualità. Come però ricorda il portavoce della International Gay and Lesbian Travel Association, finché gay e lesbiche non viaggeranno da quelle parti, le cose non cambieranno.
Myanmar, Cina, Maldive, Israele, USA, Botswana, Isole Andamana, Corea del Nord, spesso la stessa Italia. Decine i Paesi accomunati da scelte politiche e sociali discutibili, dalle più alle meno gravi, da valutare caso per caso, analizzando l’impatto del turismo sul finanziamento statale, cercando di organizzare un viaggio in maniera autonoma senza affidarsi a tour operator nazionali (o, comunque, informandosi prima) e optando per la massima libertà di scelta, sostenendo il popolo e non il governo. Viaggiare responsabilmente non per forza vuol dire evitare queste mete. Ma anche se volessimo farlo, avremmo difficoltà nell’individuare un Paese politicamente corretto, una destinazione totalmente giusta priva di zone d’ombra. È forse il visitare con le dovute accortezze a portare il maggior cambiamento possibile, più di un boicottaggio. Voltaire con lungimiranza scriveva: è ben difficile, in geografia come in morale, capire il mondo senza uscire di casa propria.
Come si viaggia consapevolmente? Bisogna assumere comportamenti che siano un compromesso tra le esigenze del visitatore e le esigenze del popolo locale, sia da un punto di vista ambientale sia umano. Promuovere principi di giustizia sociale ed economica, fungendo da tramite tra le diverse culture, testimoniando ma insieme facendosi testimonianza di una realtà diversa e di una libertà possibile. Minimizzare gli impatti sociali, economici e ambientali, incoraggiare la vendita di prodotti locali a discapito delle grandi multinazionali. Partire col dovuto background culturale, mantenendo lo spirito critico adatto a denunciare abusi e insieme a comprendere gli aspetti positivi che ogni Paese ha. Optare per le zone più bistrattate, raccogliere lì storie di resistenza e di ospitalità. Mettersi in discussione, concedersi la possibilità di tornare cambiati e di cambiare chi si incontra con positività. Un viaggiatore è il messaggio che porta, siamo come volpi sulla neve fresca. Bisogna stare attenti, noi lasciamo delle tracce vivendo, nostro malgrado. Per questo dobbiamo stare attenti a non lasciare tracce che portino al burrone (Mauro Corona).
Nella Carta mondiale di etica del turismo, redatta a Santiago del Cile l’1 ottobre 1999, è proprio questo il compito di un viaggiatore: la comprensione e la promozione dei valori etici comuni all’umanità, in uno spirito di tolleranza e rispetto della diversità di credo religioso, filosofico e morale, rappresentano il fondamento e la conseguenza di un turismo responsabile; i responsabili dello sviluppo turistico e i turisti stessi dovranno rispettare le tradizioni e le pratiche sociali e culturali di tutti i popoli, comprese quelle delle minoranze e delle popolazioni autoctone, e riconoscere il loro valore. (Art.1/com.1)
Bisogna ricordare infine che, guardando alla storia dei boicottaggi, non sono mai stati raggiunti risultati significativi. Indubbiamente le campagne creano nell’opinione pubblica un senso di indignazione e di condanna, ma è difficile che risultino decisive con conseguenze concrete. L’azione diventa efficace quando ci si trova in un clima di pressioni politiche governative sui regimi in difetto, con sanzioni ufficiali. Il reale movimento dovrebbe provenire dalle alte sfere politiche. Il compito del viaggiatore, allora, è un altro: ascoltare, comprendere e non smettere mai di superare i confini in un mondo già troppo diviso.