Il Napoli ha vinto il suo terzo scudetto. E a festeggiare, più di chiunque, sono i tatuatori. Già, è da febbraio che stanno lavorando senza pause, imprimendo sulla pelle di decine di tifosi lo scudo tricolore e non solo: asini, stemmi azzurri, palloni, perfino la Creazione di Adamo in versione calcistica. In questa settimana, il picco: tutti i tatuatori hanno offerto promozioni e sconti scudetto, e mezza città ne ha approfittato. Il che, per un non tifoso, può sembrare esagerato: vale la pena marchiare la propria pelle a vita con ul simbolo di un gioco? In realtà, sotto c’è molto di più.
Aghi, pelle, inchiostro: il mondo dei tatuaggi è antico quanto affascinante. E, sempre, questi marchi hanno avuto un carattere collettivo e rituale. Infatti, da secoli i tatuaggi vengono usati per sancire il passaggio da una fase della vita all’altra – matrimoni, nascite o funerali – e testimoniare un cambiamento di status all’interno di una determinata cultura. Non solo: questi marchi venivano incisi sulla pelle al termine di riti propiziatori o scaramantici per ottenere fortuna e protezione e per commemorare eventi importanti: feste sacre, momenti importanti per le tribù e vittorie contro altri clan.
Ovviamente, i tatuaggi segnalavano anche il ruolo degli individui all’interno della collettività: l’appartenenza a un gruppo tribale, lo status di guerriero o di capo, la comunanza di una fede religiosa. Basti pensare alla cultura Maori in Nuova Zelanda, ai nativi americani, ai giapponesi e ai polinesiani: in tutti questi casi, i tatuaggi erano (e sono) un modo di costruire un senso di identità all’interno del contesto sociale.
In sostanza, il tatuaggio era un rito sociale condiviso e, come tutti i riti, costituiva un evento visibile, pubblico ed irreversibile. Nulla di diverso da ciò che sta succedendo a Napoli: la vittoria dello scudetto – e qui la squadra diventa il manipolo di guerrieri che sconfigge il clan avverso – è un rituale comune, una festa che appartiene a chiunque e si svolge vicoli e nelle piazze. Nulla è più coerente che concludere il rituale con un marchio.
Di recente, abbiamo scritto di come la mentalità ultras non sia altro che una religione: ha infatti i suoi comandamenti, le sue liturgie, i suoi canti e i suoi sacrifici. Ma questo vale per il calcio tutto, con le sue effigi e i suoi luoghi di ritrovo, il suo senso di appartenenza (ormai paragonabile solo ai legami di sangue) e la sua iconografia: la domenica allo stadio è il rito comune della messa.
Oltre a Sanremo, in Italia solo il calcio (purtroppo) ha ancora la capacità di creare un rito comune e nazionalpopolare. Allora, uno scudetto marchiato a fuoco su pelle segna l’appartenenza a un clan, a una fede, a uno status sociale: quello di tifoso. Però, va detta una cosa. I tatuaggi calcistici sono gli unici a far parte di un rituale pubblico, ma non sono gli unici a segnalare l’appartenenza ad un clan. Ci sono i tatuaggi militari, quelli culturali – tantissime minoranze etniche continuano a mantenere le loro tradizioni secolari o, come in Giappone, a recuperarle – e quelli religiosi. Certo, sono meno rispetto alla maggioranza dei casi: nell’era moderna il tatuaggio si è evoluto da un rituale sociale a uno soggettivo, dalla costruzione di un’identità all’interno di una comunità ad una definizione di un’identità individuale.
In effetti, soprattutto in Occidente, i tatuaggi più comuni sono espressione della vita di ognuno – date, nomi, volti, animali guida – o della propria personalità. Ma, anche se c’è stata una mutazione, non è completa. La costruzione del sé non è mai indipendente dalla società: resta una performance che mettiamo in piedi per comunicare con gli altri ed essere compresi.
Ad esempio: io ho una grande passione per i tatuaggi buffi, naif e colorati. Mi piacciono perché li trovo belli, ma anche perché – secondo me – mi rispecchiano. E, se ne avessi di più, comunicherebbero all’esterno la mia identità più facilmente: chi mi guarda saprebbe subito che sono più vicina a un clown che a una femme fatale.
Paul Valéry affermava che quel che c’è di più profondo nell’uomo è la pelle. Ed è vero: la pelle è il nostro confine con il mondo. Ogni ruga, ogni poro, ogni cicatrice racconta la nostra storia, definisce il nostro essere. Essa è il luogo privilegiato di interazione con l’esterno, la membrana che connette il dentro e il fuori. Il mio gusto è influenzato da ciò che voglio dire di me agli altri. Non voglio più comunicare il mio status di capo, sciamano o guerriero, ma il mio personal brand. C’è un personaggio – ciò che io ho costruito attraverso i miei vestiti, i miei atteggiamenti e sì, anche i miei tatuaggi – e c’è un pubblico. E, nel mio mirino inconscio, c’è la ricerca della mia tribù.
Una tribù non è altro che una rete di supporto, un gruppo di esseri umani che vive le stesse esperienze ed è in grado di comprendersi appieno. Alcuni ce l’hanno di default – il proprio gruppo etnico e religioso o la propria famiglia – mentre altri, disconnessi da queste comunità più tradizionali, devono costruirne di nuove.
Un esempio è la comunità LGBTQ+. I suoi membri hanno costruito riti, feste – basti pensare al Pride –, emblemi, codici linguistici ed estetici. Di conseguenza, sono nati anche i tatuaggi di appartenenza: l’arcobaleno o la rainbow pride assieme a tutte le sue varianti, la stella nautica o la labrys per le lesbiche, il biohazard o lo scorpione per i malati HIV, il simbolo di Venere/Marte per esprimere l’identità di genere.
Sono marchi che rendono visibili. La comunità LGBTQ+ ha subito violenze e repressione per secoli: allora, scrivere permanentemente sul corpo la propria identità sessuale diventa un modo di dire fottiti alla paura di essere visibile e queer in pubblico.
In questo modo va letto anche il triangolo rosa, il segno di riconoscimento che i nazisti cucivano sulle camicie dei prigionieri omosessuali nei campi di concentramento. Perché scegliere un simbolo con un passato così oscuro? Per ricordare tutti quelli che sono venuti prima, che hanno lottato e hanno sofferto, e per includere anche sé stessi in quella storia.
Il capovolgimento di un simbolo e il suo uso come forma di empowerment è in realtà un filone importante nel mondo dei tatuaggi. Un esempio è Medusa, simbolo delle sopravvissute a violenze sessuali. Sono tantissime le survivor che si tatuano il volto della Gorgone, creatura inumana dai capelli di serpe che riduce in pietra chiunque la guardi.
Medusa, secondo il mito, era una donna bellissima. Così bella che Poseidone se ne invaghì e decise di violentarla. L’atto scatenò la gelosia di Atena, che attribuì ogni colpa a Medusa e la punì tramutandola in un mostro. Secondo le survivor, il mito rappresenta la loro situazione: ancora oggi, la vittimizzazione secondaria è fortemente radicata nella nostra società. Si tratta della tendenza di ribaltare la situazione e mettere la vittima al banco dell’imputato: chi denuncia subisce un processo alla sua moralità e, se non lo supera – Era vestita in modo provocante! La colpa è sua! –, diventa il mostro della storia.
Allora, tanto vale diventare il mostro: sfoggiarlo con fierezza, sulla propria pelle, per sempre. Secondo alcuni è spettacolarizzazione del dolore o trauma porn: forse, ma può servire a trovare una comunità di sostegno. Riconoscersi, trovarsi, avere una rete di persone che hanno vissuto lo stesso trauma. Avere un clan, proprio come allora.