Per definizione, i diritti umani sono uguali e inalienabili, si basano su libertà, giustizia e pace e sono riconosciuti a ogni membro della società umana. Ciò significa che per sentirli propri un individuo deve semplicemente essere tale, solo un uomo, una donna o un bambino che vive sul nostro pianeta. Non esiste minoranza o emarginato a cui non siano riconosciuti – purtroppo, soltanto teoricamente – il diritto alla vita e a una vita dignitosa, alla libertà, all’autodeterminazione o alla fede eppure, come spesso accade, il fatto che essi siano universalmente definiti non implica necessariamente che si provveda a creare volontariamente le condizioni affinché questi da potenziali divengano effettivi.
È il caso dei tormentati Rohingya, una minoranza etnica di religione islamica che abita la regione settentrionale del Myanmar. Storicamente si tratta di una popolazione estremamente povera, ma sono state le controversie sulla sua origine e l’attribuzione di cittadinanza a scatenare le terribili violenze a cui viene tuttora sottoposta. Così, dopo anni di angherie, è stata approvata dall’ONU la risoluzione che punisce le violazioni dei diritti umani perpetrate dal Myanmar nei confronti della minoranza musulmana. All’assemblea generale sono stati 28 i Paesi astenuti, 9 i no e 134 i sì che hanno condannato gli abusi perpetrati dal governo e dall’esercito tramite arresti arbitrari, torture e stupri. Il governo birmano era già stato accusato nel rapporto delle Nazioni Unite dello scorso anno che annunciava un’inchiesta per portare i vertici del Paese al tribunale penale internazionale, probabilmente spinti dalla recente strage di oltre un migliaio di Rohingya.
Ma la travagliata storia della minoranza non è certamente così giovane e, anzi, le sue radici affondano nel lontano 1982, l’anno in cui una legge sulla concessione della cittadinanza stabilì che ai Rohingya non spettasse quella birmana. Tuttavia, nonostante le tragedie che lo hanno visto protagonista, difficilmente le vicende che coinvolgono questo popolo compaiono sulla scena mediatica e ancora più difficilmente catturano l’attenzione del pubblico sostanzialmente ignaro della crisi in atto. In Myanmar, i Rohingya sono ritenuti cittadini bengalesi immigrati illegalmente con la colonizzazione britannica. Non hanno libertà di movimento all’interno del Paese, sono sottoposti a varie forme di tassazione del tutto arbitrarie e ai lavori forzati.
Dal 2017 oltre 700mila Rohingya sono fuggiti in Bangladesh, trovando rifugio in un campo profughi in cui le condizioni di vita, purtroppo, sono disastrose. Ben presto, però, le autorità bengalesi hanno dichiarato di non poter più accogliere rifugiati e a ottobre 2018 hanno concluso un accordo con la Birmania per il rimpatrio della minoranza, alla quale tuttavia ancora non è stato riconosciuto alcun diritto o cittadinanza.
In realtà, il Myanmar dalle prime accuse ha fatto ben poco per assicurare un cambiamento delle condizioni nelle quali i Rohingya rimasti vivono e nelle quali si ritroverebbero i rimpatriati. Il governo del Paese non ha collaborato ad alcuna indagine internazionale e ha dichiarato che nessun musulmano innocente è stato ucciso. In più, la corte penale internazionale de L’Aja ha istituito un’inchiesta nei confronti del Myanmar con l’accusa di genocidio. Come se non bastasse, nel mirino è finita la stessa leader birmana Aung San Suu Kyi, Nobel per la Pace e attivista per i diritti umani riconosciuta a livello globale, che ha negato gli abusi da parte dei militari e che ora è accusata di aver permesso consapevolmente che le persecuzioni avvenissero, senza agire per fermare il terribile massacro del popolo meno voluto al mondo.
Per i Rohingya non è prevista alcuna cittadinanza, sono un popolo senza un Paese ed è difficile garantire i diritti di cittadino a chi cittadino non è. Prima di essere birmani o bengalesi, però, i Rohingya sono persone e il loro status di cittadini del mondo dovrebbe bastare perché i fondamentali diritti umani siano riconosciuti. Tuttavia, fino a ora, le flebili iniziative della comunità internazionale sono servite a poco e non hanno salvato la minoranza dagli eccidi e dalle ingiustizie. I Rohingya sono additati, in Myanmar, come immigrati illegali o, addirittura, terroristi islamici. Non possono possedere terre, avere più di due figli e sono discriminati per la religione che professano. Che l’ONU abbia condannato il genocidio dopo anni di discussioni in merito è un grande passo in avanti, ma quanto tempo ci vorrà prima che cambi effettivamente qualcosa? Quanti abusi dovranno ancora essere perpetrati prima che qualcuno difenda i diritti umani di un popolo spogliato della sua umanità? Intanto migliaia di persone soffrono, vittime di abusi fisici e di potere, mentre il resto del mondo resta a guardare e non impara mai.
Perché la storia umana si ripete in un ciclo senza fine e la parola genocidio continua inspiegabilmente a comparire tra le pagine di un’attualità tristemente inattuale e di un presente che sa di ingombrante passato.