Nell’attacco efferato alla Striscia di Gaza e al popolo palestinese – che alcuni hanno ancora l’ardire di definire conflitto, come se ci fosse uno scambio che è invece stato fagocitato dal genocidio in corso – un ruolo simbolico hanno assunto i luoghi del sapere e della cultura palestinese.
Il sapere ha da sempre un ruolo eversivo e così i suoi luoghi sono i primi a essere attaccati nel tentativo di eliminare qualsiasi voce dissonante rispetto alla narrazione egemone. In questo caso, si vuole negare l’autodeterminazione di un popolo, la sua stessa esistenza e il suo valore, e così si colpiscono insegnanti, accademici, studenti, spazi di incontro e di scambio come laboratori e biblioteche, a Gaza come in Cisgiordania. Non c’è margine per alcun confronto e, anzi, chi osa criticare le operazioni militari è subito tacciato di antisemitismo, in Europa e altrove, mentre le voci dissonanti israeliane vengono destituite dai propri ruoli per diventare vittime di una vera e propria campagna di stigmatizzazione.
Simili attacchi sono ancora più gravi e rilevanti in un momento come quello che si stava vivendo in Palestina, in cui Gaza e la Cisgiordania erano riuscite a raggiungere un tasso di alfabetizzazione pari al 98%, nonostante i lunghi anni di occupazione e le difficoltà del mondo arabo. Le famiglie palestinesi stavano investendo molto nell’istruzione dei propri figli, rappresentando questa uno strumento di riscatto, soprattutto per le giovani donne. La domanda era così alta che secondo un rapporto di Education Cluster le classi erano sovraffollate e lavoravano su una doppia turnazione. Ma ora che i danni infrastrutturali sembrano irreversibili, insieme alla decimazione di vite umane, cosa resta?
Lo spazio per il confronto e il dissenso sono ristretti anche altrove, a cominciare dal nostro Paese. Ci ricordiamo tutti le immagini degli studenti di Pisa manganellati dalla polizia mentre sfilavano per la Palestina e tutte le altre manifestazioni soffocate nel sangue di queste settimane. Oltre alla repressione espressa e violenta, si assiste anche a una censura molto meno visibile ai più: seminari e convegni di approfondimento vengono cancellati perché “divisivi”, gli oltre 4mila docenti italiani promotori di una petizione per il cessate il fuoco sono stati tacciati anch’essi di antisemitismo, gli atenei subiscono pesanti pressioni perché tutte le iniziative sul tema vengano annullate o comunque mantengano un profilo basso.
Molte mobilitazioni si sono attivate per spingere gli atenei a non partecipare a un bando di collaborazione con università e istituti di ricerca israeliani, in conseguenza della stipula di un Accordo di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica tra il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI) e il Ministero dell’Innovazione, Scienza e Tecnologia israeliano (MOST). Il rischio denunciato dagli studenti è quello di finanziare ricerche in tecnologie cosiddette dual use, che potrebbero cioè essere utilizzate sia per scopi civili che militari, contribuendo così alle gravi violazioni in atto nella Striscia di Gaza.
Alcune università come quella di Torino o la Scuola Normale di Pisa, dopo le contestazioni, hanno votato mozioni per non partecipare al bando, suscitando indignate reazioni da vari esponenti politici. La Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha sfoderato la oramai inflazionata accusa di antisemitismo, mentre la Ministra Anna Maria Bernini (Università e Ricerca) ha denunciato un boicottaggio dell’attività di ricerca la cui libertà, ha affermato, deve rimanere estranea alle richieste politiche. Più che di richieste politiche, noi parleremmo di una richiesta umanitaria e, soprattutto, di rispetto del diritto internazionale e dei più basilari diritti umani, come si legge anche nella lettera aperta di più di duemila docenti, ricercatori e tecnici al MAECI al fine di interrompere non la partecipazione a un singolo bando, ma qualsiasi collaborazione con le istituzioni israeliane. La speranza è di ridurre, almeno in parte, quella che è una nostra precisa responsabilità internazionale nel genocidio in corso.
La scorsa settimana le proteste hanno riguardato anche la Sapienza di Roma e l’Università Federico II di Napoli, il cui rettorato è stato occupato dagli studenti che hanno chiesto di essere ascoltati per non farsi complici del preciso piano israeliano di cancellazione del popolo palestinese. Ma il tentativo di diffondere una narrazione unidirezionale non è solo italiano: basti pensare che all’Università di Vienna il corso di studi sulla storia palestinese è stato cancellato perché veicolo di propaganda anti-israeliana e antisemita. Cosa di preciso è diventato antisemita? Anche la sola volontà di comprendere e approfondire, pare.
Appena pochi giorni fa una grossa mobilitazione pro-Palestina, per chiedere l’interruzione di collaborazioni accademiche e istituzionali, ha riguardato la Columbia University, dove più di cento studenti sono stati arrestati e sospesi per aver manifestato, come non accadeva dal 1968, durante la guerra del Vietnam. Ora come allora, la repressione non è servita a fermare le proteste, come ha ricordato anche Maryam Alwan, una delle organizzatrici: «Vogliono spaventarci, ma questo moltiplicherà le mobilitazioni».
È forse da queste semplici affermazioni che bisogna ripartire, per moltiplicare le nostre urla indignate, per frenare il tentativo di silenziare il dissenso, di reprimere la voce degli ultimi, che oramai riguarda vari aspetti della società. Ed è forse proprio dai luoghi attaccati del sapere, dove attraverso la consapevolezza e lo studio si possono affermare nuove forme di società e di rispetto reciproco tra i popoli, che bisogna ricominciare, per riempire le piazze e far sentire la voce di chi non ha più voce, in una responsabilità che è collettiva. Perché, come ci direbbe Gramsci anche oggi, l’indifferenza è il peso morto della storia.