Sono tornati. I pantaloni a vita bassa, spauracchio di aguileriana memoria, sono stati evocati nuovamente dallo spettrale dimenticatoio dei primi anni Duemila a infestare le passerelle di mezzo mondo e i negozi di fast fashion. Descritti come uno dei mali dell’umanità da chiunque sia abbastanza grande da ricordarne la scomodità estrema e la vestibilità atroce, il ritorno alla gloria di questo aborrito capo d’abbigliamento è tutt’altro che una questione di frivola vanità.
A costo di fare il verso a uno dei personaggi più iconici del cinema di quel decennio, la Miranda Pristley de Il Diavolo veste Prada (interpretata da una meravigliosa Meryl Streep), commettiamo spesso l’errore di considerare la moda e gli abiti come qualcosa di secondario e, invece, il modo in cui scegliamo o ci viene – più o meno subdolamente – imposto di presentarci agli altri è indicativo non solo della personalità di un individuo (anche quando a quest’ultimo non interessi, il suo disinteresse è espresso paradossalmente dagli abiti che indossa), ma delle cose cui dà peso la società in cui vive.
Per esempio, a tutte le culture patriarcali sta particolarmente a cuore l’abbigliamento delle donne. Anzi, qualche volta l’abbigliamento sembra un elemento di così fondamentale importanza nell’espressione del giudizio di valore su una donna che chissà cosa indossava quando è successo è una delle domande più gettonate nei casi di abuso.
Che la impugniamo come strumento d’emancipazione sessuale e affermazione di sé, che cerchiamo attraverso i vestiti e gli accessori una validazione della nostra femminilità, o che ci allineiamo religiosamente ai trend delle varie stagioni primavera-estate, non c’è momento in cui si possa veramente astrarre la moda dai presupposti socio-culturali all’interno dei quali si muove. Se le collezioni di haute couture sono sempre più vicine – da un punto di vista estetico – all’arte, non esiste nessun’altra arte che imponga con altrettanta immediatezza i suoi dettami sul mercato.
L’ossessione per la magrezza, per i corpi femminili che scompaiono avvolti in sudari di pizzo e seta, è in parte un derivato dell’immagine della donna che l’industria della moda ha interesse a vendere. Come accadeva già per gli uomini qualche secolo fa, abbiamo cominciato ad associare all’adipe, ai corpi femminili dalle linee robuste, un attributo di bruttezza, fallimento e sciatteria. Il tarlo della forma perfetta ci intossica già dalla pre-adolescenza. Cosa voglia dire essere una donna in forma, però, dipende dalle mode e non dalla salute del corpo.
È vero che l’attenzione sempre maggiore ai movimenti di body positivity ha generato proprio nel settore moda una spinta – di marketing – verso una rappresentazione più variegata (anche se ancora lontana dalla realtà) dei corpi umani, tuttavia c’è da chiedersi quanto questa rappresentazione corrisponda a verità, se per il mondo della moda le donne taglia 42 siano da considerarsi già taglie forti, come evidenziato dalla recente polemica che ha coinvolto il celebre marchio di intimo Victoria’s Secret. Sono, poi, spesso gli stessi brand di fast fashion che sui propri portali propongono un’immagine più inclusiva a giocare al ribasso sulle taglie che vendono negli store per corrompere l’acquirente con il pensiero confortante di poter indossare una misura in meno. Il taglio industriale e standardizzato degli abiti fa il resto, proponendo all’utente medio una gamma di vestibilità quasi mai ottimale e che alimenta, a lungo andare, una sconnessione dalle misure effettive del proprio corpo, percepito sempre (o quasi) come ingombro.
La sconnessione aumenta, poi, con l’utilizzo degli strumenti digitali della manipolazione dell’immagine di cui sono, oggi, zeppi i social media. Nei primi anni Duemila, le riviste scandalistiche si riempivano di foto “rivelazione” della star di turno mostrata senza l’ausilio di Photoshop, con indosso gli impietosi jeans a vita bassa e quello che viene detestabilmente definito dai rotocalchi un rotolino di troppo. Oggi, abbiamo Instagram e TikTok a insegnarci come dovrebbero essere disegnate le curve dei nostri fianchi per risultare attraenti. Siamo sotto la lente d’ingrandimento del vasto mondo giudicante come Paris Hilton e Nicole Richie nel 2003.
Sentirsi parte del canone estetico è una necessità addestrata dalla società dei consumi e da quest’ultima venduta come elemento imprescindibile di una vita felice e appagante. Nello specifico, la vita bassa promuove ed esige corpi dalla magrezza slanciata e quasi aguzza, l’addome asciutto e glabro che lascia intravedere le creste iliache. Si tratta di un trend doppiamente escludente e problematico perché tiene conto solamente dell’estetica dei corpi delle donne bianche e perché è intrinsecamente legato a un’idea di bellezza femminile prepuberale. Il corpo adulto della donna va compresso, sottoposto a controllo, messo a disagio costantemente e ridiscusso in virtù di questa fascinazione pedofelica che il patriarcato nutre per le fragilità dell’infanzia. I corpi delle persone nere vanno, invece, posti ai margini di qualsivoglia discussione o estetica, in modo che si perpetri l’illusione egemone del corpo bianco come norma e canone.
Con questo, non si vuole demonizzare un capo d’abbigliamento. La scelta di adoperare o meno capi a vita bassa è personale e assolutamente mai inopportuna, se affine al proprio gusto. Resta, però, il fatto innegabile del ruolo che ha la moda d’influenzare la percezione che abbiamo di noi stesse. Il corpo magro è un brand di quest’era e i trend sono dispositivi per domare tutte le altre tipologie di fisico. Ricordatevelo, la prossima volta che i pantaloni non vi si chiudono nel camerino di Zara.