È di pochi giorni fa la notizia di un contratto collettivo nazionale per i rider, siglato da Assodelivery – associazione italiana che rappresenta l’industria italiana del food delivery a cui aderiscono Uber Eats, JustEat, Deliveroo e Glovo – e il sindacato UGL (Unione Generale del Lavoro). Si tratta del primo contratto collettivo di questo genere in Europa ed è stato salutato con moltissimo entusiasmo da Paolo Capone, segretario generale UGL, e Matteo Sarzana, presidente di Assodelivery, che hanno parlato di un cambiamento epocale, necessario non solo per le tutele dei rider ma anche per sfruttare al meglio le moltissime opportunità offerte dalla on demand economy.
Di fatto, l’accordo recepisce le indicazioni emanate dal governo lo scorso anno con il cosiddetto Decreto Rider (d.l. 101 del 2019), su impulso della Ministra del Lavoro Nunzia Catalfo, che dettava norme minime di tutela per i lavoratori autonomi che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui attraverso piattaforme digitali. Tuttavia, al di là di enunciazioni di principio che possono apparire molto positive, il contratto suscita numerosissime perplessità che hanno destato preoccupazione da parte dei sindacati confederali e dei collettivi di rider organizzati sul territorio, che sono sul piede di guerra e hanno già annunciato scioperi e azioni legali per impedirne l’applicazione.
Come sottolineato in un comunicato da CGIL, CISL e UIL, l’accordo è stato sottoscritto pur in presenza di un tavolo sindacale aperto a luglio presso il Ministero del Lavoro, e aggiornato a settembre, attraverso il quale i sindacati confederali stavano tentando di ampliare il ventaglio di tutele riconosciute ai rider, inserendoli in un CCNL di logistica sottoscritto dalle loro categorie di riferimento fin dal 2018, ma che Assodelivery si era sempre rifiutato di firmare, nonostante fossero stati proposti anche percorsi condivisi di armonizzazione degli interessi eventualmente contrastanti. Denunciano così la scelta di un interlocutore di comodo, definito dalla rete nazionale Rider x i Diritti come una sigla sindacale che non ha alcuna rappresentatività nel settore e che anzi sta svolgendo una funzione antisindacale. Si tratta quindi di una finta operazione di miglioramento delle condizioni dei rider, che in realtà cela esclusivamente interessi economici a vantaggio delle sole piattaforme.
Nonostante diverse pronunce negli ultimi anni abbiano affermato la necessità di riconoscere ai ciclofattorini la natura di lavoratori subordinati, tale accordo lascia invariate le norme relative al lavoro autonomo, negando così un’eterorganizzazione che è invece palese per i rider. Ciò significa rafforzare la precarietà delle loro condizioni di lavoro, permettendo invece alle grandi multinazionali del food delivery di disporre di manodopera a basso costo e facilmente sostituibile, scaricando invece sulle spalle dei lavoratori il loro vantaggio fiscale e retributivo. Il contratto fissa in dieci euro il compenso minimo per ora, considerando però il solo tempo necessario per effettuare la consegna, senza invece tenere conto dell’intero tempo messo a disposizione da parte del dipendente, le cui condizioni, mantenendo il pagamento a cottimo, sono addirittura peggiorate.
Da tale inquadramento, discende che ai rider non verranno retribuite malattia, tredicesima, maternità o ferie e correranno il rischio di essere licenziati una volta raggiunto il tetto retributivo massimo per le collaborazioni occasionali. Anche le disposizioni del contratto apparentemente positive celano degli intenti tutt’altro che virtuosi, esprimendo la sola intenzione di incentivare lo sviluppo economico. Avevamo già segnalato, in occasione del commissariamento di Uber Italy i rischi che si insidiano nell’eccessiva flessibilità delle forme contrattuali prive di un ventaglio di tutele realmente rispettose dei diritti umani e della dignità dell’individuo.
L’accordo, siglato in una sede che non è quella propria della trattativa, non fa altro che porre un sigillo alla condizione di precarietà dei rider, ponendosi tra l’altro, in un solco tracciato dalle scelte politiche di questi ultimi anni e basato sul modello europeo della cosiddetta flexicurity. Si tende, così, ad alleggerire progressivamente le tutele all’interno del rapporto, nascondendo gli interessi economici dietro la promessa di maggiore occupazione. Dunque, ciò che appare necessario in questo momento è guardare al di là delle enunciazioni di principio che parlano di diritti sindacali, contrasto al caporalato e al lavoro irregolare, divieto di discriminazioni, per renderci conto di quali sono le reali intenzioni dei contraenti che stanno invece incentivando forme di sfruttamento sempre più gravi.
Nonostante il CCNL risulti aperto alla sottoscrizione degli altri sindacati, essi hanno già confermato di andare in direzione assolutamente opposta, seppur consapevoli che si tratti di una lotta tutt’altro che semplice e che i passi in avanti fatti nell’ultimo periodo sono stati spazzati via da un accordo che, si spera, non venga riconosciuto come legittimo dal Ministero del Lavoro, che ora più che mai è chiamato a prendere una decisione. Non si possono vanificare gli orientamenti oramai consolidati della giurisprudenza nazionale e internazionale e con essi le conquiste dei lavoratori, ma soprattutto non si può mortificare – spinti dal becero interesse economico – la loro dignità e il loro diritto ad avere un impiego che non equivalga a sfruttamento.