Corea del Sud. Una bimba di dieci anni, col tutù rosa e la frangetta, ripassa i passetti di una coreografia in un corridoio. È circondata da altre bimbe, tutte minute e coi capelli sistemati. Le mamme le guardano apprensive. Sono nella hall di un grosso ufficio. Un uomo esce da una porta e scandisce il suo nome. Eccolo, è il momento che aspettava. Il momento per il quale sua mamma l’ha preparata per mesi: l’audizione. La bimba entra e comincia a ballare di fronte a una linea di adulti che la scruta.
È l’incipit di una storia comune: quella di una bimba col sogno di essere una pop star. Una idol, come le BLACKPINK o le SNSD. Il sogno di avere un viso perfetto, lunghe gambe snelle fasciate da pantaloncini stretti e le luci dei riflettori sempre addosso. Le pop star coreane, con le loro coreografie perfettamente sincronizzate, le loro musichette orecchiabili e i sorrisetti carini sempre stampati in faccia, sono diventate un culto. Fan adoranti le venerano da ogni parte del globo, fanno scalare loro le classifiche mondiali e comprano ogni singolo oggetto da loro sponsorizzato.
Hanno rubato premi a Lady Gaga e Miley Cyrus, fatto tour in tutto il mondo e dato vita a una delle industrie musicali più lucrative del pianeta. In Corea del Sud, il governo è in brodo di giuggiole: schiere di fan anglofoni cantano in coreano, i BTS valgono mezzo PIL del paese e la nazione si sente finalmente alla pari degli USA. Ma quelle bimbe in fila per le audizioni non avranno una vita facile.
Prendiamo quella che abbiamo lasciato qualche paragrafo fa, col tutù rosa. Se tutto va bene, sua mamma riceverà una telefonata dall’agenzia d’intrattenimento e correrà nella cameretta ad abbracciarla. Poco dopo, firmerà un contratto. La sua bimba diventerà una tirocinante: cresciuta, allenata e plasmata per diventare una idol. I contratti possono durare dai cinque agli undici anni, anni in cui i tirocinanti perdono la loro infanzia. I disegni, il pallone e i cartoni animati verranno sostituiti da prove, prove e prove. Allenamenti continui, estenuanti, per arrivare alla perfezione. Iniziare a ballare e smettere solo quando i piedi doloranti non ce la fanno più. La bimba, diventata una ragazzina, ha adesso una bellezza acerba e la pelle di porcellana. Quelli dell’agenzia l’avevano capito subito che sarebbe stato un buon investimento. Anche perché, in dieci anni, non ha mai pianto. Mai un passo sbagliato, mai una nota stonata.
Le altre ragazze spesso nascondevano merendine nelle tasche degli zaini. Lei no, non è mai uscita dal limite della dieta ferrea imposta dall’agenzia. Non ha mai avuto un infortunio o un cenno di cedimento. Mai un burnout. E, adesso, i riflettori si sono accesi per lei. Tra le ottanta tirocinanti, hanno scelto lei. Ma non c’è ancora lieto fine: è adesso che inizia la parte difficile. Quando un tirocinante viene selezionato per diventare un idol, viene abbinato ad altre promesse. Il gruppo si conosce così, su ordine delle agenzie, le quali costruiranno a tavolino il suo nome e la sua identità.
Gli allenamenti, se possibile, diventano più intensi e brutali: il gruppo si deve muovere in sincrono, come un solo corpo. Si aggiungono le lezioni su come rispondere alle interviste, come stare sul palco, come appagare lo sguardo dei fan. E i ritocchini imposti dai manager: double eyelids e naso affilato. Correlati da punturine di botox. Gli idols indossano quello che gli viene detto di indossare, cantano quello che gli viene detto di cantare, recitano la parte a loro assegnata.
E quando il successo arriva, non diventa più facile. Il gruppo salta da un palazzetto a un altro, tour dopo tour, intervista dopo intervista, mille performance tutte identiche. Niente cellulari, niente computer, e il divieto chiaro e tondo di intrattenere relazioni romantiche: gli idols devono sempre risultare disponibili agli occhi del pubblico. Sembra una distopia, o la trama della prossima stagione di Squid Game. E invece no, è tutto vero. Spesso sono le stesse agenzie d’intrattenimento a rilasciare video che mostrano i durissimi allenamenti degli idols, pur di normalizzare l’ambiente brutale e ipercompetitivo nel quale anche i fan sono spesso costretti a lavorare. Gli idols e i tirocinanti non sono altro che lavoratori sfruttati e alienati, ma vengono venduti ai giovani come esempi di resilienza, autodisciplina e forza, fattori chiave da emulare per ottenere successo. È il sogno coreano, baby.
E i fan si bevono tutto quanto. La prova sono gli outfit, marche e marchette sponsorizzate dagli idols che vanno a ruba prima ancora di essere rilasciati sul mercato. Per non parlare della K-pop Combo: un pacchetto di chirurgia estetica che comprende le double eyelids e un naso più fine e appuntito. Il pacchetto è diventato estremamente popolare, facendo salire alle stelle le percentuali di coreani coi ritocchini. Potere biopolitico. E potere mentale. Che modo straordinario è stato inventato, in Corea, per convincere la working class ad accettare lo sfruttamento e comprare tutto ciò che vuole l’industria: dei manichini viventi che vendono se stessi come brand.
Gli idols del K-pop sono pensati, prodotti e distribuiti per controllare i desideri dei fan, i loro consumatori. From factory girls to K-pop idols girls è il brillante saggio di Gooyong Kim, abilissimo nel raccontare come le star del K-pop siano semplicemente delle marionette usate dall’industria musicale e dal governo coreano per portare avanti una propaganda imperialista, neoliberale e patriarcale. Non solo sono la manifestazione culturale dei valori nazionali, ma sono state utilizzate per condizionare i coreani (specialmente le donne) a spendere tempo e denaro per conformarsi allo status quo.
Gooyong Kim fa un viaggio tra i video più popolari del K-pop femminile, svelandone la propaganda patriarcale. In Gee, le SNSD si presentano come le classiche ragazze della porta accanto: niente trucco, codine, fermagli rosa, sorrisi timidi, spallucce e mani a pugno all’altezza delle guance. I pantaloncini sono corti ma non provocanti: è una sensualità delicata, quasi infantile. In Genie cambia qualcosa: le idols sono vestite con uniformi sexy, molto più provocanti, ma intervallate da scene in una cameretta rosa da ragazzina. Le SNSD sono carine in maniera erotica, ed erotiche in maniera giocosa. Ecco qui l’aegyo, il concetto tradizionale coreano di donna ideale. Una bimba porno.
Ma appena debuttano in America, il tono cambia. Aggressive, provocanti e sessualizzate: in The Boys, le SNSD ricoprono il ruolo delle tentatrici asiatiche, immagine ben radicata nell’iconografia occidentale. Ed è qui la schizofrenia dell’industria K-pop, che vuole le sue star infantilizzate e kawaii in un video, ma sensuali e provocanti in un altro. È una schizofrenia che nasce dal matrimonio tra patriarcato e capitalismo: la sessualità femminile è concessa se gli uomini possono sfruttarla economicamente.
Dopotutto, le agenzie spesso si auto-descrivono come il padre, il fratello maggiore, lo zio, il coach, l’insegnante e il guardiano delle idols. Peccato che questi “padri” siano più che altro padroni. Lunga è la catena di suicidi tra le star del K-pop: Sulli, Goo Hara, Kim Jonghyun. Potrei andare avanti per ore. I fan hanno incolpato spesso le agenzie per aver sottoposto i loro idoli a una vita dura ed esasperante, con zero riguardo per la loro salute mentale. E anche fisica: nel 2014, EunB e RiSe sono morte in un incidente d’auto, dopo aver viaggiato da un concerto all’altro senza riposo.
Il mondo del K-pop è lo specchio esatto della società coreana (e non solo). Una sovrabbondanza di lavoratori sfruttati e alienati, convinti che l’unico modo per battere la competizione sia non avere nessun riguardo per la propria sicurezza e salute. Pronti a sacrificare tutto pur di raggiungere il successo. Donne convinte, con la retorica del girl power, che lavorare per dieci ore in un ufficio sottopagate sia empowerment. Convinte che i vestiti giusti, i ritocchini giusti e il corpo giusto le renderanno potenti ed emancipate, come i loro idoli. E dopotutto, idolo significa simulacro: una rappresentazione del dio che tutto governa. E gli idols sono la rappresentazione di un solo dio: l’industria.
Foto di Jeon Han