Che una sanatoria non fosse sufficiente a far uscire dalla condizione di invisibilità e sfruttamento le centinaia di migliaia di migranti che si trovano irregolarmente in Italia l’avevamo già sottolineato, auspicando invece la necessaria modifica dei Decreti Sicurezza e l’introduzione di regole che creino canali legali di ingresso e permanenza nel rispetto dei diritti di persone che spesso hanno sopportato abusi e ingiustizie pur di guadagnarsi un’opportunità di vita migliore. Tuttavia, l’insufficienza di una regolarizzazione diventa ancora più palese se si guarda alle modalità con cui essa è stata prevista e attuata con l’articolo 103 del cosiddetto Decreto Rilancio. La procedura – i cui termini sono stati prorogati fino al prossimo 15 agosto – riguarda infatti una regolarizzazione parziale, altamente restrittiva e foriera di ulteriori discriminazioni e sfruttamento, come confermato dai recenti dati pubblicati dal Ministero dell’Interno. Ma andiamo con ordine.
I canali attivabili sono due: il primo attraverso un’iniziativa del datore di lavoro, il secondo per istanza diretta dello stesso migrante. In entrambi i casi i requisiti d’accesso sono molto stringenti: i settori coinvolti per la cosiddetta emersione del lavoro nero sono solamente tre, ossia l’agricoltura, l’assistenza alla persona e il lavoro domestico. Inoltre, nel primo caso l’articolo 103 parla della possibilità che il datore di lavoro assuma un migrante presente sul territorio prima dell’8 marzo e mai allontanatosi dopo, lasciando quindi alla sua volontà l’attivazione o meno della procedura. E le probabilità che ciò avvenga sono molto basse, considerato che non solo questi dovrà dimostrare la sua capacità economica ma soprattutto sarà tenuto a pagare un contributo forfettario di 500 euro per ogni dipendente e, autodenunciandosi, un’ulteriore quota nel caso di regolarizzazione di un rapporto di lavoro già sussistente ma instaurato irregolarmente per coprire le somme dovute a titolo contributivo, retributivo e fiscale.
Va da sé che un datore di lavoro a cui la norma consente implicitamente di mantenere illegalmente dei lavoratori non si sentirà incentivato in nessun modo a fare diversamente, a meno che non sia mosso da uno spirito personale di giustizia o dalla volontà di mettere fine a tale situazione di illegalità. Verrebbe allora da pensare che possano essere i dipendenti a denunciare all’ispettorato la condizione in cui si trovano e ottenerne così la regolarizzazione. Fu questa, infatti, la conclusione cui si giunse con la sanatoria compiuta nel 2002 per la quale il governo in carica emanò anche una circolare con cui precisava che il verbo potere previsto dalla norma era da intendersi come espressione di un preciso dovere e non di una facoltà del datore di lavoro. A oggi, invece, non c’è stata alcuna specifica che faccia tendere verso tale interpretazione.
Analoghi limiti sussistono anche per il secondo canale di regolarizzazione previsto dall’articolo 103 in base al quale l’istanza per ottenere un permesso di soggiorno della durata di soli sei mesi può provenire soltanto da un cittadino straniero che sia già stato titolare di un permesso scaduto dalla data del 31 ottobre 2019. È inoltre necessario che non si sia mai allontanato dall’Italia dall’8 marzo 2020 e che abbia già lavorato in uno dei tre settori per cui la regolarizzazione è prevista, allegando copia del passaporto o di un documento attestante la propria identità rilasciato dall’ambasciata di riferimento. Solo dimostrando che durante i sei mesi ha lavorato in uno dei comparti previsti, il cittadino straniero potrà ottenere una conversione in permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Una procedura complicata e costosa che esprime a pieno la ratio per cui la regolarizzazione è stata pensata: non il diritto alla salute di persone che vivono in Italia e la cui invisibilità rischia di assumere contorni tragici durante una pandemia, bensì le esigenze di mercato e la necessità di svendere i diritti per trasformare i lavoratori in merce affinché potessero salvare il nostro raccolto.
Fatte le dovute premesse, è facile comprendere i dati pubblicati dal Ministero dell’Interno: la statistica iniziale effettuata era quella di 200mila persone (delle 600mila presenti sul territorio) che avrebbero potuto accedere alla misura prevista dal Decreto Rilancio. Gli ultimi numeri, aggiornati al 16 luglio, parlano di 123429 domande pervenute, di cui 11mila circa in corso di lavorazione. Tra queste, quasi l’80% è parte dei settori del lavoro domestico e di assistenza alla persona, anche se la procedura era stata introdotta in prima battuta soprattutto per l’agricoltura dove le condizioni di sfruttamento, soprattutto al Sud, sono più forti, ma anche più difficili da debellare. Come sottolineato da Antonio Mumolo, presidente dell’associazione Avvocato di strada, è più probabile che una famiglia che ha bisogno di assistenza domestica attivi la procedura per regolarizzare un proprio lavoratore poiché non è un datore di lavoro tipico e perché il contratto è flessibile, basato sulla fiducia e senza spese eccessive. È molto più difficile che ciò avvenga, invece, se si tratta di caporali che sfruttano i lavoratori per tre euro all’ora e senza nessun costo di carattere contributivo e fiscale. Intanto, nessun dato sulle domande andate a buon fine e i permessi di soggiorno rilasciati è stato pubblicato.
Considerati i criteri stringenti e la difficoltà di trovare un’assunzione regolare, dunque, il canale dell’istanza diretta da parte del cittadino straniero è stato utilizzato in bassissima percentuale: si tratta, infatti, di delegare il proprio futuro alla volontà di un datore di lavoro che come un vero e proprio padrone potrà decidere se attribuire la libertà al suo schiavo, chiedendo non solo il rimborso delle somme versate nel caso di attivazione della procedura, ma anche ingenti somme di denaro con le quali i migranti dovranno comprare i loro diritti indebitandosi. Così gli sfruttatori che dalla norma dovevano essere colpiti avranno nuovi incentivi allo sfruttamento. Il Viceministro dell’Interno Matteo Mauri ha parlato del ruolo fondamentale delle realtà che operano in prima fila nei settori coinvolti per evitare le truffe e i tentativi di abuso, ma non si può delegare a organizzazioni di prossimità un ruolo di controllo che appartiene a chi la procedura ha introdotto e avrebbe dovuto farlo con tutte le precauzioni del caso, espletando al meglio la propria funzione.
Come se non bastasse, c’è anche un’altra ingiustizia che si sta compiendo nell’indifferenza generale e che riguarda i richiedenti asilo: si è tentato di scoraggiare questi ultimi dal presentare domanda di regolarizzazione emanando circolari provenienti dal Ministero dell’Interno con le quali si è stabilito che essi non possono richiedere il permesso temporaneo di cui parliamo se non rinunciando alla domanda di protezione internazionale già avviata, diversamente vedranno la richiesta di regolarizzazione rigettata. Un atto discriminatorio e anticostituzionale di cui non c’è alcuna traccia nel tenore letterale della norma e che esprime la volontà di sgravare lo Stato dal peso economico di persone che sono tuttora viste come mero onere giudiziario, economico e amministrativo. Provvedimenti che, seppur di rango inferiore alla legge, sono già stati applicati da diverse questure che hanno così rigettato le domande di regolarizzazione dei richiedenti asilo. A tal proposito, l’associazione Naga ha inviato una lettera al Viminale, segnalando le errate interpretazioni e le ingiustizie che come sempre si consumano sulla pelle dei più deboli.
Intanto, continua la strenua difesa del provvedimento da parte dei suoi promotori, indifferenti al fallimento e all’inumanità espressi dalla procedura. Il Ministro dell’Agricoltura Bellanova e il Viceministro dell’Interno Mauri continuano a parlare di un intervento necessario e risolutivo, tuttavia a oggi anche i dati parlano chiaro e dimostrano l’inutilità, oltre che l’ingiustizia, di una politica che mette i profitti davanti alle persone e ai loro diritti. Cambiano i nomi ma non le intenzioni e ne sono testimonianza le recenti dichiarazioni del Ministro Luciana Lamorgese: «I migranti sappiano che non c’è alcuna possibilità di regolarizzazione per chi è arrivato in Italia dopo l’8marzo poiché dobbiamo prima garantire la salute pubblica delle nostre comunità locali». Una nuova forma di prima gli italiani, con le vittime che restano vittime e i più deboli che cedono al ricatto inseguendo il miraggio di una vita migliore, mentre vengono divorati da un fiume di odio e disumanità.