Gelati sciolti, mani appiccicose, puzza di sudore. Venditori di spighe che accendono le braci, anziani che lottano per le poche panchine all’ombra e adulti che schiumano in fila all’acquafrescaio. È arrivata l’estate in città, e allora ombrelloni in spalla: si va al mare.
Ma il mare non bagna Napoli, a meno che non lo paghi. In realtà, non bagna proprio la Campania: il 70% della costa (che misura poco meno di 500 chilometri) è occupato da stabilimenti balneari privati e le poche zone senza ombrelloni a pagamento sono nelle condizioni di Chernobyl dopo l’esplosione.
Non esagero: lo storico dossier di Legambiente Mare Monstrum ha attribuito anche quest’anno (come sempre) la maglia nera alla Campania. Inquinamento, abusivismo edilizio, mala depurazione, cattiva gestione dei rifiuti, assalto al patrimonio ittico e alla biodiversità: nel 2022 lungo le coste campane ci sono stati 1245 reati, il 26,3% del totale nazionale.
Scarichi a mare, batteri fecali e sostanze chimiche: se vi serve un terzo occhio, un bagno lungo le nostre coste è ciò che fa per voi. Addentratevi nel litorale di San Giovanni a Teduccio, in pieno divieto di balneazione: sarà anche difficile accedervi tra strade ferrate e cantieri navali, depuratori e centrali elettriche, ma ne guadagnerete arti, dita e orecchie in più.
Oh, ma a Napoli esiste un paradiso immune (al più) da Escherichia Coli, catrame e immondizia: Posillipo. Certo, le discese a mare sono in maggioranza privatizzate, piene di lucchetti, fili spinati e cancelletti, ma portandovi un paio di cesoie o replicando la pubblicità dell’olio Cuore dovreste riuscire ad arrivare (prima o poi) a una spiaggia pubblica.
C’è però un’ulteriore barriera tra il cittadino napoletano e le chiare, fresche e dolci acque di Posillipo: la temibile prenotazione su www.spiaggelibere.it. Già, perché le spiagge libere sono talmente poche che non riescono a contenere più di 900 persone. Il che sarebbe appena sufficiente se ci trovassimo a Olevano sul Tusciano, ma difficilmente nella città metropolitana di Napoli.
Su prenotazione, 450 persone possono accedere alla Spiaggia delle Monache, 50 alla Spiaggia Donn’Anna e, suddivise in due turni, 400 persone alla Gaiola. Questi pochi eletti partenopei, scelti per testimoniare ai restanti cittadini negazionisti che il mare esiste davvero, a fine giornata non possono che ringraziare il loro sindaco misericordioso della grazia ricevuta.
Quante lagne, pagatevi un ombrellone! – diranno alcuni di voi (e per alcuni di voi intendo i proprietari dei lidi). Il mare non è un bisogno primario, di stabilimenti ce ne sono eccome, smettete di lamentarvi. Peccato che il mare libero e gratuito sia un diritto.
Sin da piccoli siamo stati abituati alla distinzione tra “spiagge libere” e “spiagge private”: solo le prime appartengono a tutti i cittadini, come i parchi o le strade, mentre le seconde sono equiparabili a un bar o a un ristorante. In realtà, le spiagge private non esistono.
Il mare è un bene comune, e le spiagge sono solo pubbliche: ciò che viene dato in concessione ai privati sono i servizi, che riguardano solo le parti della spiaggia retrostanti i cinque metri dalla battigia. Sì, ombrelloni fino all’acqua, cancelletti e fili spinati sono dei veri e propri abusi da parte dei concessionari: la legge n. 296/2006 stabilisce l’obbligo per il titolare delle concessioni di consentire il libero e gratuito accesso di transito, per il raggiungimento della battigia antistante l’area ricompresa nella concessione, anche al fine della balneazione.
Invece, questo bene pubblico viene asservito solo agli interessi di chi non lo vive, ma lo consuma: imprenditori che si tramandano le concessioni balneari come fossero un patrimonio privato di famiglia. E, in effetti, un po’ lo sono: in Italia, grazie al sistema delle proroghe automatiche, le concessioni non vengono mai toccate, riviste o ridistribuite.
Perfino la Commissione Europea si è espressa contro l’affidamento ai privati delle concessioni a uso esclusivo su beni demaniali con proroghe automatiche (escludendo chiunque altro dalla possibilità di accedere a questo privilegiato sfruttamento di un bene pubblico): nella ratio della norma italiana dovrebbe essere una eccezione, ma nei fatti sugli ottomila chilometri di costa due terzi vengono dati in concessione a privati.
Anche la Corte di giustizia europea – nella sentenza Promoimpresa (14 luglio 2016) – ha sancito l’illegittimità della proroga generalizzata delle concessioni: le spiagge sono un bene limitato e tutti devono avere la possibilità di aggiudicarsele. Invece, sono pochi i gruppi imprenditoriali che hanno il monopolio storico dei litorali.
E come biasimarli, ci spendono anche pochissimo: i canoni che gli imprenditori sono costretti a pagare allo Stato sono minimi, rispetto alle entrate. Secondo il Centro Studi Nomisma, il giro di affari dei circa 27mila concessionari è pressappoco di 15 miliardi con un pagamento allo Stato di appena 115 milioni di euro.
In più, i canoni sono uguali dappertutto: una concessione a Ostia Lido costa quanto una in Costa Smeralda. Le Regioni avrebbero dovuto approvare piani demaniali per distinguere le zone in base al loro pregio e valore (e quindi alzare i canoni anche in Campania, ad esempio a Posillipo) ma indovinate? Non è mai successo.
Come mai tutta questa lentezza? Beh, il nostro Parlamento conta un numero elevatissimo di persone direttamente interessate dalla gestione degli stabilimenti balneari. Ci sono quasi 12mila aziende che gestiscono la costa, e questi concessionari si sono negli anni consolidati all’interno dei partiti: una forza non facile da scardinare.
Ma torniamo a noi, alle nostre 4772 concessioni demaniali marittime. In Campania, solo una spiaggia su tre è accessibile gratuitamente: stiamo parlando del 32% del litorale. Per farci un’idea, in Francia un minimo dell’80% della lunghezza del litorale e della spiaggia deve restare libero da qualunque struttura, equipaggiamento o installazione.
Qui la proporzione è al contrario: nelle zone di Meta di Sorrento, Cellole e Battipaglia le spiagge “private” sono rispettivamente l’87%, l’84% e il 68%. È chiaro che in queste condizioni ci si trova a dover selezionare i campani che possono fare un bagno tramite portali e prenotazioni manco fossimo alle poste: il mare qua non è un bene pubblico.
Però adesso siamo stanchi, tutti. Napoli non ce la fa più a essere una città cartolina, da visitare ma non da abitare. Una città suddivisa e divorata da malaffare e imprenditoria, in cui i napoletani non hanno più spazio: né nelle strade sommerse dai tavolini, né nel centro storico venduto ai turisti, né nelle spiagge.
Mare libero e gratuito non è più lo slogan di pochi: è un urlo che viene dal basso, da chi si è visto privato di tutto. E almeno al mare non ci vuole rinunciare.