Un padre e un figlio decenne sono in autostrada: il ragazzino gioca con il pupazzo di Mazinga, il genitore lo rimprovera bonariamente, facendogli notare che è troppo grande per i robottini. Il figlio, in cerca di approvazione, getta subito il giocattolo dal finestrino. Il padre frena l’auto al limite della corsia d’emergenza. Incurante del pericolo va al centro della carreggiata a recuperare Mazinga e si sofferma, pensoso, su di esso. Poi rientra indenne in auto e lo restituisce al bambino. I sentimenti che animano l’accaduto sono evidentemente più forti di qualunque pericolo materiale. Sì, perché in questa scena c’è la sintesi emotiva e stilistica de Il ladro di giorni, nonché una delle chiavi per entrare e abitare questo film ben strano, eccentrico ed emozionante.
Il padre, Vincenzo, è l’ombroso Riccardo Scamarcio, ormai perfettamente a suo agio nelle corde del cinema di genere – Lo spietato (2019), Il testimone invisibile (2018) –, terribilmente efficace nell’alternare spietatezza e tenerezza, ironia e drammaticità. Il figlio, Salvo, è il giovanissimo e intenso Augusto Zazzaro: tra lui e Scamarcio si è creata una chimica perfetta che fa scintille per tutto il film e infatti è facile immaginare che ciò che vediamo sullo schermo sia frutto di un rapporto evidentemente instauratosi per davvero sul set.
Ma torniamo alla scena-chiave. C’è già tutto: l’intimità del legame padre-figlio e la difficoltà con la quale ognuno dei due cerca di adeguarsi all’altro. C’è un figlio che mette in crisi i comportamenti spontanei e istintivi del padre, mostrandogli quanto le azioni e le parole di un genitore possano diventare macigni, e c’è un padre che, nel tentativo di redimersi e fare la cosa giusta, lo fa nel solo modo che conosce: irresponsabilmente, ovvero in maniera spaccona, per esempio scendendo dall’auto nel bel mezzo della carreggiata, incurante delle conseguenze delle proprie azioni, perché è anch’egli un bambino. Così noi spettatori palpitiamo dinanzi a quella scena, un po’ per il goffo tentativo di Vincenzo di venire incontro a Salvo, un po’ per l’incosciente pericolo in cui va a ficcarsi.
Infine, c’è la strada: come dicevamo, infatti, Il ladro di giorni è un film eccentrico che coniuga sapientemente il road-movie con il film intimista e il noir di ambientazione criminale. Dopo un prologo nel quale il padre viene arrestato praticamente davanti al figlio piccolo, sette anni di carcere dopo si riaffaccia nella vita del ragazzo, nel frattempo affidato alla zia che vive in Trentino. Vincenzo se lo porta via per pochi giorni, apparentemente per un viaggio di piacere nella natia Puglia, in realtà per usarlo come copertura per i suoi affari illeciti: un bambino è meglio di una pistola afferma infatti con un complice. Il viaggio, manco a dirlo, sarà occasione di riscoperta e riavvicinamento tra i due. Salvo, ad esempio, scoprirà nel padre una maniera di vita anarchica, giocosa e sprezzante delle regole grazie alla quale assaggerà quella libertà che non può vivere in casa della zia. Tale stile è però anche fanciullesco, irresponsabile rispetto alle conseguenze delle proprie azioni. In una sorta di educazione criminale, quindi, padre e figlio troveranno un canale di comunicazione che si espliciterà in alcuni episodi in cui Salvo dimostrerà un coraggio e una lucidità non indifferenti.
La linea temporale del racconto si frantuma in flashback che seguono i ricordi di Vincenzo e che faranno scoprire in che modo è stato arrestato e soprattutto di chi è stata la responsabilità. Inl viaggio del delinquente, infatti, non è solo per affari – loschi, ovviamente – ma anche per compiere una vendetta, i cui tasselli, proprio come in un western alla Leone, vengono fuori man mano, dosati in modo tale da chiarire soltanto alla fine le modalità e gli eventi che hanno portato all’attuale stato delle cose. Infatti, nell’uso del paesaggio, delle campagne pugliesi che sembrano lande sterminate, dei paesini sperduti incontrati lungo il viaggio, Il ladro di giorni assume le cadenze di un western on the road, aiutato anche da un’evocativa colonna sonora di Giordano Corapi e dalle magnifiche canzoni di Alessandro Nelson Garofalo che, soprattutto verso il finale, sembrano richiamare sonorità morriconiane.
Nell’assaggio di vita anarcoide e libertaria che Salvo riceve nei pochi giorni in cui accompagnerà Vincenzo, la memoria non può non andare al Mondo perfetto (1993) di Clint Eastwood, nel quale uno spaesato bambino, figlio di testimoni di Geova, veniva portato in giro nell’America del 1963 dal criminale Butch/Kevin Costner che gli mostrava una vita all’insegna della libertà, dell’afferrare le verità celate dentro noi stessi e anche del disprezzo delle regole. Come Costner, anche Scamarcio vive di istinti: tirare fuori la pistola è la sua reazione più naturale in certi frangenti e, così come avveniva nel capolavoro eastwoodiano, anche qui il ragazzino funge da contraltare. Anzi, in una scena sorprendente costringerà il padre a rivedere l’efficacia del suo agire istintuale. Al tempo stesso, è inevitabile che il giovane Salvo subisca il fascino della vita più libera che conduce Vincenzo e infatti, come si diceva, non tarderà a farsi suo complice in piccoli crimini che cementeranno il loro rapporto.
Il film potrebbe sembrare moralmente ambiguo se non fosse che questa educazione criminale a cui viene iniziato il ragazzino è narrativamente giustificata dal rapporto psicologico che si viene a creare tra i due, ovvero di ricerca dell’approvazione da parte del ragazzo da un lato e, dall’altro, il tentativo, con modalità tutte sue, di essere un padre. Il pericolo dell’ambiguità viene scongiurato anche dal modo in cui il bimbo, con il suo solo sguardo, metterà in crisi i comportamenti violenti del genitore fino a disinnescarne il carattere esplosivo e pericoloso. Si troverà una redenzione soltanto alla fine. I valori morali riguardo ciò che si è visto verranno poi ricomposti e riassunti in un discorso fuori campo – con la voce di Salvo – che, va detto, suona un po’ didascalico e superfluo.
Non vogliamo ovviamente intraprendere paragoni impropri ma non suonerà comunque esagerato affermare che, soprattutto nel modo in cui il ragazzo salva e redime l’anima paterna, nonché nella tenerezza che fuoriesce dal loro rapporto, Il ladro di giorni richiama alcune tematiche del classico Ladri di biciclette (1948). Lo sguardo di Enzo Staiola/Buno Ricci sul padre Lamberto Maggiorani/Antonio Ricci, nella carrellata finale del capolavoro di Vittorio De Sica in cui assistiamo all’inseguimento della folla che vuole linciarlo per il furto della bicicletta, diventa lo sguardo di Salvo che, nel corso del film, si evolve dalla diffidenza iniziale, passando per l’ammirazione, arrivando poi alla scoperta delle fragilità dell’altro.
Guido Lombardi, già autore dell’intenso e bello Là bas – educazione criminale (2011) – titolo non casuale –, nonché dell’insolito noir Take five (2013), in Il ladro di giorni, tratto dal romanzo omonimo a sua volta basato sulla sceneggiatura che vinse il Premio Solinas nel 2007, si gioca una regia svelta ed efficace, con fluidi movimenti di macchina che assecondano le intense espressioni di Scamarcio e Zazzaro, nonché con aperture paesaggistiche molto suggestive, il tutto sempre al servizio del ritmo della storia che non perde un colpo.
Non mancano alcune metafore un po’ scontate, come quella dell’Isola del tesoro, il romanzo di Stevenson che Salvo si porta dietro per tutto il film e che gli funge da specchio immaginario in cui proiettare romanticamente la figura del padre come moderno pirata. Neanche la scena del tuffo, simbolo del coraggio necessario ad affrontare la vita, sfugge a una programmaticità che, in alcun punti, fa scadere il film in un didascalismo evitabile.
Questi difetti, però, non scardinano un’opera che sorprende e avvince comunque, supportata tra l’altro da un cast di rilievo che vede tra i suoi interpreti il bravissimo Massimo Popolizio – avvezzo a ruoli del genere, a partire da Romanzo criminale (2005) – e Carlo Cerciello, maestro e attore della scena teatrale napoletana, in un ruolo davvero sorprendente e ambiguo.
Colpisce un momento sospeso, quasi onirico, nell’incontro di Vincenzo con la banda che lo attende per lo scambio illegale. In questa scena, l’utilizzo della musica, il raccordo di sguardi tra Scamarcio, il boss e i suoi scagnozzi se da un lato concretizzano la dilatazione western tipica di un Leone, dall’altro richiamano quella sospensione paradossale che caratterizzava la scene finali del sorrentiniano Le conseguenze dell’amore (2004) in cui Titta Di Girolamo/Toni Servillo si ritrovava nelle mani dei camorristi che gliel’avrebbero fatta pagare. Infatti è proprio nel sapiente equilibrio tra tensione emotiva – Scamarcio/Vincenzo uscirà vivo da questo incontro? – e rarefazione del racconto che Lombardi trova una sua cifra genuina e molto efficace.
Questa sensazione, stemperata da momenti ironici e intimi, è proprio l’arma vincente del film che avvince ed emoziona per tutta la sua durata proprio grazie alla sapiente gestione degli eterogenei toni del racconto, riuscendo ad alternare momenti di tenerezza, ironia e scoperta reciproca dei personaggi con una tensione che scorre palpitante attraverso tutto la pellicola, andando via lisci incontro al finale catartico.