Ho tentato, un giorno, di inventariare gli autori e gli artisti editi da Avella e Sgambati, ma mi sono fermato a centoventicinque. Avrei dovuto continuare la ricerca in cassettiere segrete a Napoli e Nola, dove si trovano le officine dei due maestri, ma l’impresa era ardua perché bisognava camminare senza lanterna in una buia Wunderkammer dell’immaginazione e, poi, avevo paura dei fantasmi. La cosa, comunque, ha i suoi vantaggi perché puoi sentirti un po’ Warburg e, inoltre, vuoi mettere l’oh! di meraviglia quando Tonino e Vittorio tirano fuori dal loro Wunderbuglio (meraviglioso guazzabuglio) la Ravello di Manuel Cargaleiro, le forme viventi di Persico, le crepe di Paladino dalle quali ti spia il dio degli interstizi? E vuoi mettere l’impagabile gioia di scoprire testi di poeti che non puoi intercettare da nessun’altra parte? I manufatti di Vittorio e Tonino hanno sempre un vissuto, una masulliana paticità, quando li sfoglio, con lentezza, ricordo sempre i versi di Itaca, dove Kavafis esorta il viandante a sostare a lungo negli empori fenici, a respirare con il respiro dei millenni, ad annusare i profumi che penetrano il tempo, a meditare su madreperle, corallo, ebano, ambre, /tutta merce sottile, lavorata dall’uomo.
Nel demo Tribunali, in vico San Nicola a Nilo, sede della bottega napoletana, una sera fui lasciato da solo per presidiare lastre in morsura: giuro che sentii uno spiffero e vidi entrare Scaramuré e Nicola Antonio Stigliola. Venivano da via Atri e discutevano serenamente, mi salutarono e continuarono a parlare tra loro di formule, quadrati magici, solidi kepleriani. Scaramuré tirò fuori dalla tasca del saio una copia del De Idearum Umbris e Nicola Antonio vi appuntò qualcosa – una spirale, mi pare, o un mandala o un cerchio lulliano –, controllarono le lastre, lasciarono impronte d’inchiostri dappertutto, mi salutarono di nuovo – Buonasera, e io, come un babà in vetrina da Scaturchio, Buonasera – e uscirono nel vicolo diretti, da come, origliando, mi sembrò di intendere, per la via del Sole verso Port’Alba, alla tipografia del Nicola Antonio per altre loro faccende macumbere. In un’altra occasione, sotto la luce avversa di una lampada, fissavo nell’officina di Vittorio una rielaborazione delle Meninas pensando allo studio di Foucault su Velasquez, ed ecco che Pertusato e il cane uscirono dal quadro e le Menine li seguirono come ballerine di un carillon lasciando per terra impronte di piedi bagnati. Il fatto che i loro corpi non producessero ombra mentre camminavano non mi meravigliò più di tanto, mi sarei stupito del contrario.
L’officina di Vittorio e Tonino è per me la tana del fantastico e del “repentino”, Das Unheimliche, un posto dove incontri sogni con il carapace, dove sei al centro della spirale della Patafisica, disciplina di cui siamo adepti e che ha come regula lo stare lontani dalla visibilità – dunque, essere visibilmente invisibili – e come cartiglio il làthe biòsas (nasconditi vivendo) di Epicuro. Il Laboratorio ama lo stare nel nascosto, kryptestài phylèi, anche fisicamente: lo devi trovare, lo devi capire, devi essere un iniziato.
Alla frequentazione della stamperia devo il mio interesse per la lingua napoletana. Ho sempre collegato i colori del sudore e del quotidiano della gente dei bassi con le acquetinte di Vittorio, quelle che sembrano fatte con i polpastrelli. Il centro storico di Napoli non è come altri, un po’ imbalsamati: ci vivono le stesse famiglie da millenni, è vissuto. Fu durante la Festa dei Gigli di Nola, di cui Vittorio è gran parte, che ebbi la visione dei collatori, tutti con la stessa faccia, sotto la macchina da festa che formavano un corpo unitario: … comm’ ’e pparanze/quanno ’o giglio ’e Nola/va strevezianno, ombra diagunale/ tra ’a terra e ’o sole, e nuie sbattimmo ’e piere/nce arrarecammo sotto, stupetiate,/ coribbante ’e rinforzo, ’a ’dderezzammo/ lle rialammo ’a sustanza, ’a forza, ’o sango,/ ’o nniro ’e na iastemma. Dietro il giglio vidi sì lunga tratta/ di gente, ch’i’ non avrei creduto/ che morte tanta n’avesse disfatta. Durante il percorso, ogni alzata era un kyrie eleison, Signore, sollevaci, frase che ripetevo tra me e me mentre Lombardi Satriani e Roberto De Simone annuivano al mio tremore sacro.
È grazie ai due nolani che curo la collana I Poeti di Vico Freddo. Il nome deriva da Vico Freddo a Rua Catalana, dove c’era la stamperia napoletana, e dove, una sera, incontrammo – ci aspettavano – sotto la pioggia poeti infreddoliti. Chi pubblichiamo? Poeti che abbiano uno stile – evidentemente –, che appartengano a diverse aree linguistiche – utilmente –, che abbiano qualcosa da dire, necessariamente. Ogni volume è affiancato da disegni di un artista scelto di volta in volta con poetica analoga ai testi ed è corredato da un leporello in modo che i due, poeta e artista, viaggino insieme. Sono molti anni che collaboro con il Laboratorio ed è difficile che pubblichi versi con altri editori. Perché? Innanzitutto perché mi piace stare con loro progettando volumi che hanno intenso lavoro e storie significative e, poi, perché un libro edito da una grande casa editrice rispetto a uno affidato alla cura di Tonino e Vittorio è un prodotto da fast food, senza sapore e sapienza, destinato al macero quando non fa più ruotare il magazzino. La poesia non ha molti lettori, pubblicare con il Laboratorio significa non essere letti una sola volta da cento persone ma cento volte da una sola.