Si chiude sulle note di Albachiara l’ultimo Salone Internazionale del Libro di Torino. Nei corridoi semivuoti ci sono soltanto gli addetti ai lavori. Hanno i volti stanchi ma felici, li osservo e mi sento a casa. Non li conosco tutti, ma poco importa: una volta attraversato lo specchio, non c’è nulla che possa renderci estranei.
215mila visitatori, mille persone tra staff e macchina organizzativa, molte di più quelle che si sono alternate agli stand. Non è un caso, forse, che il tema di quest’anno sia stato proprio un rimando ad Alice e al suo paese delle meraviglie: non c’è niente, al Lingotto, che non sembri appartenere a una dimensione altra.
È una bolla il SalTo, di sapone e leggerezza, di fatica e passione, di sorrisi che tengono a bada qualsivoglia cattivo pensiero mentre gridano, ancora, l’appello di sempre: siamo qui. Come fate a non vederci? Eppure, non ci vedono mai.
Dal 2019 a oggi, il Salone Internazionale del Libro di Torino ha registrato circa 67mila ingressi in più, un numero enorme che probabilmente – dice qualcuno – potrebbe essere stato raggiunto soltanto nella giornata di sabato, quando la prima manifestazione editoriale di Italia ha toccato picchi mai raggiunti. Discorso simile – con cifre decisamente più basse, ma comunque in costante crescita – era toccato a Roma, nel mese di dicembre, in occasione di Più Libri Più Liberi, la fiera della piccola e media editoria, a conferma di un trend che negli ultimi anni conta sempre più presenze quando si tratta di incontri dedicati alla letteratura. Ed è ancora una volta qui che vogliamo porre l’accento.
La XXXV edizione del Salone Internazionale del Libro ha battuto tutti i record delle edizioni precedenti. Ma quello che ha costruito – come ben dice il direttore uscente Nicola Lagioia – va oltre i numeri. È la dimostrazione che esiste una comunità, forte, che ha voglia di incontrarsi e di inseguirsi su e giù lungo lo Stivale. Il punto è permetterglielo. E permettere a tutti, tra i tantissimi editori presenti, di poterci essere anche il prossimo anno e quelli a venire, tutelando proposte culturali nuove, indipendenti, lontane dai grandi giochi di potere e di famiglia.
Si fa sempre più urgente, infatti, uno spazio dedicato nel dibattito pubblico, un discorso che possa in un tempo che siamo stufi di chiamare futuro coinvolgere le istituzioni, i cittadini fuori e dentro il Lingotto, fuori e dentro un settore che tuttora fatica a compattarsi, a farsi notare e a imporsi per quello che è e per quello che vale. Un settore costantemente vessato, umiliato, mai – mai – sostenuto da iniziative di tipo legislativo che ne favoriscano la sopravvivenza. Iniziative lontane da questo governo, figuriamoci, ma anche da tutti quelli che nel tempo sono andati susseguendosi nel nome della cultura come volano di un Paese che bla… bla… bla.
Al quartultimo posto in Europa per percentuale di PIL destinata al comparto, l’Italia che riempie i padiglioni 1, 2, 3, l’Oval, il Centro Congressi e la Pista 500, che partecipa a 1520 incontri in cinque giorni, resta, purtroppo, la stessa di pochi mesi fa, quando si registrava un mercato concentrato sempre più nelle mani dei cosiddetti lettori forti che leggono in media 17 libri l’anno e ne comprano all’incirca 12,3. È la stessa che ha visto crescere il divario Nord-Sud – al Nord i lettori sono passati dal 63% del 2019 al 59% del 2021; al Sud, invece, dal 41% del 2019 al 35% del 2021 – che non si smentisce nemmeno a Torino.
Rispetto all’anno passato – si legge nella nota conclusiva del Salone – i visitatori provenienti dalla Lombardia sono aumentati del 96%, quelli dall’Emilia-Romagna del 93%, dalla Liguria del 92%. Hanno raggiunto il Lingotto il 120% di toscani e il 130% di veneti in più rispetto al 2022, mentre dalle isole Sicilia e Sardegna sono arrivati circa 3000 lettori e lettrici. Nessun dato da segnalare per ciò che concerne le altre regioni meridionali. Perché? I lettori del Sud erano troppo pochi? Così pochi da non meritare statistica? In caso di risposta affermativa, interrogarsi sul tema è l’invito che facciamo alla nuova direttrice del Salone Annalena Benini.
Sarà lei, infatti, a sostituire lo scrittore Nicola Lagioia. Avversato, aggredito, persino boicottato, l’ormai ex direttore del Salone – agli occhi di chi scrive, direttore per sempre – dopo sette anni alla guida della manifestazione libraria più bella d’Europa fa già sentire la sua assenza. Sono stati anni meravigliosi, lo ha scritto lui. Ogni anno è andato meglio del precedente (a livello di pubblico, spazio espositivo, presenza editoriale), e anche questo aspetto è stato complicato da gestire.
Ricordiamo tutti quando volevano strappare il Salone a Torino per farne l’ennesima kermesse milanese o i vani tentativi di sabotaggio dei nostalgici del nuovo millennio. Era il 2019 e agli attacchi verbali e alle scarse rimostranze degli alfieri della sottocultura, del negazionismo becero e criminale, del terrorismo destrorso, Nicola Lagioia rispondeva con un gioco del mondo – tema dell’edizione numero XXXII – che era condivisione, passione, accoglienza, dialogo. Lo stesso che ha provato ad aprire quest’anno in presenza della Ministra per la famiglia Eugenia Maria Roccella, ospite della Regione Piemonte – che al Lingotto gestisce una programmazione autonoma – contestata da attivisti a cui non ha voluto dare risposta.
A niente è servito il tentativo democratico di Lagioia che ha commentato i fatti su Rai Tre: «Io non sono il servizio d’ordine del Salone e non sono la polizia. Ho detto ai ragazzi: eleggete un vostro delegato e trasformiamo questa contestazione in un dialogo. Loro mi hanno detto di no. Hanno rifiutato questa mediazione. È un peccato, ma è legittimo. […] I contestatori del Ministro Roccella non volevano dialogo perché per loro la Ministra è antiabortista e con una firma può rovinare le nostre vite, può cambiare le loro vite. Dovrebbe essere lei, prima di fare delle leggi, a far sì che queste leggi siano il risultato di un dialogo».
«Questo governo può avere una virata autoritaria, che non vuol dire fascismo ma un’altra cosa: restrizione della libertà, restrizione dei diritti. […] Il mio metodo è quello del dialogo, non del manganello». E giù le solite polemiche, gli attacchi, le esultanze di chi – come la deputata di Fratelli d’Italia Augusta Montaruli (anch’ella presente alla contestazione, quando ha inveito pubblicamente contro Lagioia) – ha fatto rullare i tamburi all’arrivederci del direttore. Un ulteriore attestato, direi, dell’ottimo lavoro del già vincitore del Premio Strega.
Uno dei segreti del successo del Salone di questi anni è stato l’indipendenza, ha scritto Nicola Lagioia salutando i lettori. Tutelatela. Mi rivolgo soprattutto agli editori: siate anche voi i garanti di questa libertà.
Se c’è stato qualche malumore, è già alle spalle. Come scrive Aldo Busi: “anch’io ho creduto fatale quanto si è poi rivelato letale solo per la noia che mi viene a pensarci”.
Finisce la mia esperienza di civil servant. Ho fatto quello che ho potuto, ciò che non sono riuscito a fare è mia responsabilità, ciò che di buono si è fatto è merito del gruppo di lavoro. Molto amore. I libri se la cavano sempre.
E se è vero quello che dice il direttore, è pur vero che siamo noi, lettori, giornalisti, scrittori, editori, cittadini a dover far sì che possano cavarsela. Dobbiamo essere noi i garanti di quella libertà, di quel lavoro straordinario che Nicola Lagioia ha fatto in questi anni e di cui tutti ci siamo riempiti i polmoni. Siamo noi a dover dialogare, a contestare se necessario, a non rifiutare l’idea che fare cultura significhi fare politica. Abbiamo una responsabilità. Affinché non serva attraversare lo specchio per sentirci parte di qualcosa, di una dimensione diversa, migliore, altra. Affinché il gioco del mondo dentro diventi quello di tutto il mondo fuori cantato da Vasco.
Fuori dove dopo cinque giorni di pioggia è il sole a salutare il Salone e il direttore Nicola Lagioia. Ed è giusto così. È stato un grande SalTo. Speriamo, il prossimo, di rompere – ancora – il muro del suono.