«Chi porta la divisa è sottoposto a procedimenti disciplinari o ancor peggio giudiziari semplicemente perché ha esercitato il suo ruolo di servitore dello Stato. Sul quel segmento noi interverremo»: queste le parole del Viceministro alle Infrastrutture di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami, pronunciate in occasione del congresso del Nuovo Sindacato Carabinieri a proposito della norma che nel nostro ordinamento punisce la tortura.
Questo reato è stato introdotto nel 2017 all’articolo 613 bis del Codice Penale, con lo scopo di punire chi con violenze o minacce gravi e agendo con crudeltà, provochi acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza attraverso più condotte, che costituiscono un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.
La disposizione emanata a seguito di una lunga discussione parlamentare e di un percorso legislativo durato quattro anni si rivelò molto differente da quella iniziale e per questo gli stessi che avevano proposto la legge, tra cui Luigi Manconi, si ritrovarono a non votare per la sua approvazione, ritenendo che una simile previsione potesse risultare limitante e inefficace in numerose situazioni.
Tra le tante perplessità, ci si riferiva a quell’inciso in cui il reato viene ricollegato a più condotte, rischiando così di lasciare impuniti singoli abusi o comunque di non farli rientrare nella fattispecie di tortura. Eppure, a sentire le parole del rappresentante di FdI, si direbbe il contrario: la struttura della norma è eccessiva, perché sanziona pesantemente anche singoli abusi. Questa è un’inesattezza da un punto di vista normativo, ma soprattutto un’affermazione molto grave poiché lascia intendere che un singolo abuso sia giustificabile, dimenticando quindi che fatti già di per sé condannabili assumono una connotazione ancora più grave perché commessi da chi esercita un ruolo di salvaguardia delle persone che sono in custodia o in stato di fermo poiché rappresenta la legge.
In effetti, nella sua formulazione originaria, che rispondeva anche a sollecitazioni internazionali, la norma prevedeva la configurazione di un reato cosiddetto proprio perché commesso appunto da soggetti che rivestono una particolare qualifica, ma a seguito di numerose opposizioni e stravolgimenti ha visto la luce una fattispecie di reato comune, soggetta a numerose limitazioni.
Tali dichiarazioni di Fratelli d’Italia non ci stupiscono, considerata l’opposizione spietata fatta alla disposizione in questione fin dal 2018, quando addirittura Giorgia Meloni la definì sproporzionata oltre che mortificante per gli agenti. Non ci spieghiamo come una simile previsione di tutela dei diritti umani possa ostacolare il lavoro delle autorità, che non dovrebbero avere nulla da temere. Chi afferma che basta un’offesa per vedersi incriminati – come se quest’ultima fosse giustificata nell’adempimento delle proprie funzioni – non ha letto la norma o cerca di rappresentarla in maniera falsa ai fini della propria propaganda. E così l’intenzione di modificare la legge nel senso di ridurre la sua portata era stata inserita già la scorsa estate nel programma elettorale della compagine di centrodestra per attirare a sé il consenso di quella parte delle forze dell’ordine a cui da sempre FdI e Matteo Salvini ammiccano durante le loro passerelle.
Non a caso, già nel 2018, ad appena un anno dall’approvazione dell’articolo 613 bis, Georgia Meloni si fece promotrice di due proposte di legge con il fine di trasformare la tortura da reato a circostanza aggravante e aumentare invece le pene previste per i differenti reati di minaccia o resistenza a pubblico ufficiale. Due pesi e due misure dunque: forti con i deboli e deboli con i forti.
Eppure, se si pensa al reato di tortura, ci rendiamo conto che molti passi ci sarebbero ancora da fare nella direzione di una reale salvaguardia dei diritti dell’uomo e in particolare di coloro i quali si trovano in una condizione di vulnerabilità per vedere ristretta la loro libertà personale. E, invece, rischiamo di regredire ancora e ancora.
Quello del 2017 rappresenta infatti solo il primo passo, già sopraggiunto in ritardo, dell’attuazione della Convenzione contro la tortura e altre pene e trattamenti inumani e degradanti del 1984, di cui l’Italia è firmataria. A ciò si aggiunga che la Corte europea dei diritti dell’uomo già nel 2015 aveva sollecitato il nostro Paese a dotarsi di strumenti giuridici in grado di punire adeguatamente i responsabili di atti di tortura o altri maltrattamenti, dopo i fatti del G8 di Genova e le comprovate e reiterate violazioni della dignità umana registratesi in quella sede.
Prima del 2017, infatti, tutte le condotte simili erano ascrivibili ai reati generici di percosse o lesioni, anche se commessi da agenti e pubblici ufficiali. È il caso, ad esempio, delle indagini condotte a carico di numerosi agenti, funzionari e componenti il personale sanitario del carcere di Ivrea, che avrebbero, tra il 2015 e il 2016, commesso numerose violenze a danno dei detenuti, configurando torture che però, non esistendo all’epoca tale fattispecie, verranno processati per il reato che riguarda le lesioni, oltre che i falsi aggravati.
Il reato di tortura, per quanto inefficace e dalla portata limitata, ha consentito di iniziare numerosi procedimenti a carico di forze dell’ordine che avevano abusato della propria posizione con violenze e soprusi ai danni di chi era sotto la loro custodia. Basti pensare ai procedimenti in cui si è costituita parte civile anche l’Associazione Antigone, che riguardano i fatti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, sede di una vera e propria mattanza nell’aprile del 2020, o quelli che riguardano gli abusi perpetrati nelle case circondariali di Monza e San Gimignano. Ancora molto ci sarebbe da fare, come la previsione di numeri identificativi che permettano di ricondurre all’autore delle violenze – il cui volto sia eventualmente coperto come nella maggior parte delle riprese del carcere sammaritano – dei dati identificativi, così da non lasciare impunito chi abusa della propria posizione.
Non ci stupiamo che una simile rappresentanza politica rischi di farci fare enormi passi indietro, a discapito della tutela dei diritti di tutti. A noi non resta altro che difendere quel poco che in questi anni è stato conquistato.