Nell’antichità, alcune menti geniali, ciascuna alla sua maniera, hanno dato una definizione della parola gioco. Aristotele lo accostò alla gioia e alla virtù, distinguendolo dalle attività praticate per necessità. Immanuel Kant lo definì un’attività che produce piacere, classificabile in gioco di fortuna, di arte musicale e di pensieri. Friedrich Schiller riconobbe in esso la manifestazione del naturale senso estetico e vi affidò la funzione di tramite per raggiungere la libertà e l’espressione della fantasia, affermando che l’uomo è veramente tale soltanto quando gioca.
Ai giorni nostri, con l’invadenza della tecnologia, il modo di intendere l’attività di gioco dei più giovani è nettamente mutato e occorrerebbe chiedersi se e quale seguito abbia avuto l’autorevole pensiero dei tre grandi nomi citati. Agli inizi del Novecento, i bambini crescevano industriandosi nell’inventare passatempo ludici, facendo di necessità virtù nelle famiglie dalle esigue risorse economiche. È innegabile che, a quei tempi, il gioco non facesse molta distinzione fra le classi sociali e che i piccoli si divertissero perlopiù in eguale maniera. Il boom economico nei primi anni Sessanta, però, entrando a macchia di leopardo nelle case, avrebbe portato nel Paese maggiore benessere, ma anche una progressiva disparità di risorse all’interno dei nuclei familiari e, quindi, dell’attività ludica dei fanciulli.
Un salto all’indietro nel tempo e nella mente scorrono le immagini dei secoli passati, rimandateci da qualche vecchio film. Il gioco del cerchio era uno dei più diffusi. I bimbi dovevano spingerlo con una bacchetta di legno rincorrendolo e vinceva chi riusciva a non farlo cadere. Nelle piazze di paese i ragazzi più grandi si sfidavano con la trottola: l’antesignana del variopinto giocattolo in ferro era tornita su un tronchetto di legno duro e dotata di una punta di ferro, con l’aggiunta di un cordino per lanciarla (al Meridione era detta strummolo) e vinceva chi nel giocare faceva il lancio più lungo e il giro di trottola più duraturo. Si doveva puntare almeno un soldo.
Tra i fanciulli, poi, si diffuse il gioco delle figurine. Quella del feroce Saladino era molto ambita e le scommesse si fecero più rischiose. Con l’esemplare della pregiata figurina messa in palio, dall’altra parte, se ne dovevano calare almeno sei e “titolate”. Fra le bambine, col tempo, il gioco della campana divenne quello maggiormente praticato. Bisognava disegnare a terra col gesso, ma anche con il carbone o con un pezzo di mattone, un percorso numerato entro cui saltare lanciando un piccolo sasso. Vinceva chi totalizzava più punti.
Un balzo in avanti nel tempo per vedere un cantone, uno stipite, un adrone, il tronco di un albero. Tanti erano i nascondigli utili ai maschietti per divertirsi nel giocare a nascondino. Le femminucce, invece, prediligevano il moscacieca, più composto e malizioso, durante il quale si rincorrevano bendate e vincevano nell’afferrare la compagna prescelta. Un passatempo in uso anche alla Corte del Re Sole. Da ultimo, la costruzione con i mattoni di piste veloci nelle quali si lasciavano cadere palline di terracotta e, anni dopo, i tappini di birra.
Questi sono solo alcuni dei giochi in voga tra i più piccoli nei decenni scorsi e le relative foto in bianco e nero provocano in noi un sentimento di nostalgia e tenerezza assieme, pur non avendoli vissuti. Perché? Sarà perché dietro quelle figure sbiadite, dietro i gesti fermati in rapidi scatti, riusciamo a intuire l’evolversi di fantasia e intelligenza delle generazioni che ci hanno preceduto. Al contrario, poco ricorderanno i posteri degli odierni figli del digitale che fanno altrettanta tenerezza, ma i cui comportamenti, a proposito del giocare, inducono a più ampie riflessioni. Cresciuti a videogiochi e smartphone, il loro intrattenimento omologato ci appare, incolpevolmente, senz’anima.
Una folta schiera di bambini e adolescenti si è ammalata di solitudine perché le ore del giorno sono state scandite da identici intermezzi, che di fantasioso hanno poco o niente. Rispetto al passato la loro socializzazione è inaridita e ciò è anche la conseguenza di un dialogo familiare meccanico e sempre più superficiale. Nel mentre, la scuola, che dovrebbe sopperire a tali lacune, con le cosiddette classi pollaio non consente ai docenti seri e motivati di approfondire storia e personalità dei singoli alunni. In tal modo, vengono soffocati il loro potenziale di immaginazione, il progredire del senso estetico e della padronanza di linguaggio. Senza contare che, in età adulta, potrebbero, come già a volte accaduto, sviluppare disturbi della personalità e lasciarsi tentare, talvolta, da gesti estremi.
Oggigiorno, sempre più bambini e adolescenti si allontanano dall’idea del gioco di gruppo, preferendo interfacciarsi, in solitudine, con gli strumenti tecnologici messi loro a disposizione, ma in tal modo, a lungo andare, questi comportamenti limitano il sano sviluppo della loro interiorità. C’è da augurarsi che le famiglie prendano coscienza del problema e spronino i loro figli a limitare, quando possibile, l’uso di pc e cellulari, preferendo un intrattenimento che coinvolga di gran lunga la sfera emotiva.
Guardino benevoli al gioco e alle sue prerogative di attività che consentono al bambino di sperimentare attivamente la rappresentazione della realtà esterna, di imparare a conoscere se stesso e il mondo circostante e di iniziare a consolidare le prime forme di autocontrollo e di interazione sociale. Consci che le attività di gioco crescono e si modificano di pari passo con lo sviluppo intellettivo e psicologico, rimanendo comunque una tappa importante nella vita dell’uomo, a prescindere dall’età.
Il bisogno e il piacere del gioco, difatti, permangono durante tutto il corso della vita, facilitando con modalità di volta in volta differenti l’espressione delle proprie emozioni, il confronto con gli altri e il raggiungimento del benessere individuale.
Contributo a cura di Anna Loffredo