Jacov Reinhardt è fatto della sostanza dei personaggi indimenticabili. Spinto dal fuoco della passione intellettuale, lo stesso fuoco che – come un presagio – gli adorna la testa in una manciata di rossi ciuffi scapigliati, attraversa l’Europa crepuscolare e la giungla latina americana alla ricerca filosofica della malinconia. Lui, rampollo di un più che ricco magnate del tabacco, dedica lo scopo della vita alla profanazione delle origini spendendo il denaro della sua eredità nella riproduzione architettonica della malinconia, assurgendo (oltre che a suo massimo teorico) anche a massimo esteta splenico.
Come tutti i grandi, la sua biografia, per essere degnamente raccontata, si avvale della penna e della voce del seguace, un tuttofare ipocondriaco incontrato in sanatorio. Già nelle premesse, dunque, lo scrittore Mark Haber colloca l’impresa dei suoi personaggi nella sfera dell’assurdità folle, la ricerca impossibile di una teoria malinconica che, nel suo tragicomico dipanarsi, trova in realtà la più verace conferma.
Ambientata nel 1907, la ricerca di Reinhardt assume, sul finale, il tono di una premonizione: dell’Europa delle guerre mondiali non è presente che un timido germoglio, eppure lo scheletro del continente (e del mondo) che sarebbe stato e già ben presente negli accenni al sistema e alla cultura coloniali. Reinhardt può dedicare l’intera vita alla ricerca filosofica e indulgere nelle sue stravaganze perché ha ereditato un’immensa fortuna dall’attività di famiglia: il commercio del tabacco, varietà vegetale sconosciuta in Europa prima della cosiddetta scoperta delle Americhe e della corsa alla colonizzazione.
Lo stesso viaggio da lui intrapreso alla ricerca del filosofo Carrasquilla (detentore, a detta di Reinhardt, del segreto della malinconia) ricalca parodicamente l’avventura alla ricerca del Capitano Kurtz in Cuore di Tenebra, caposaldo della letteratura coloniale. Se nel capolavoro di Conrad, la nebbia della follia discendeva sui personaggi man mano che si addentravano nella giungla congolese, dalla quale Kurtz era stato interamente reclamato, i partecipanti all’impresa di Reinhardt sono folli ben prima di partire.
Il giardino che dà il titolo al romanzo (proposto, in Italia, da Keller Editore) è una riproduzione fedelissima del giardino d’infanzia nel quale Jacov passava il tempo con la sorella gemella Vita, la cui prematura scomparsa porterà il protagonista a scendere sempre più a fondo nello studio della malinconia. Nostalgia è, infatti, sempre legata a doppio filo al sentimento malinconico: giogo e sollievo dell’animo tormentato dalla mancanza. I giardini della tenuta Reinhardt sono situati nella cornice di un castello gormenghastiano nello stile di un Dio eternamente beffardo che osserva la nostra insignificanza.
Tutto l’entourage di Jacov ha in comune l’angoscia dell’insignificanza. Quest’ultima è caratteristica imprescindibile del sentire malinconico, che, pur fissato da Reinhardt nella teoria, trapela tra le pagine del romanzo per farsi condizione tangibile, clinica, scientificamente osservabile. La malinconia è una patina dell’esistenza, come la polvere. E anche di questa Jacov si circonda, anche di questa elabora una teoria estetica.
Dalla metafora della malinconia come polvere si può inferire molto della natura fondamentalmente comica e controcorrente del romanzo di Haber: associata, nel nostro paradigma di pensiero basato su produttività e utilità asettiche, a qualcosa di malato perché indice di stasi, pigrizia, sporco, la polvere diventa agli occhi del teorico della malinconia l’elemento più significativo dell’universo perché le sue milioni di particelle costituiscono un’entità intera in sé, singolare e aggregata come la nebbia. Contravvenendo alle regole della finitezza e dell’obsolescenza, la polvere torna sempre, al punto che la convinzione di poterla sradicare risulta, agli occhi di Jacov, irrimediabilmente e inequivocabilmente idiota. La polvere è, in poche parole, inevitabile e ogni tentativo di provare il contrario è vano. La polvere su un vetro rappresenta un filtro per guardare, un dispositivo per leggere la realtà e il mondo naturale dal di dentro, ponendo l’attenzione a ciò che sta dietro gli occhi e non davanti.
Malinconia e vita divengono, dunque, un problema di interpretazione, di traduzione. Alla traduzione in senso lato sono riservate belle riflessioni, riassumibili nell’idea che anche quest’attività umana sia pervasa di malinconia perché caratterizzata dal fatto di essere allo stesso tempo impossibile e inevitabile. Pur esistendo la traduzione, un traduttore non esiste finché è in vita e questo perché il frutto del lavoro di un traduttore acquisisce valore solo quando si sia sedimentato nel lento trascorrere degli anni. Per cui la traduzione, come la malinconia, come la polvere, è un atto impossibile perché è impossibile la sua collocazione e risoluzione nel presente. La letteratura, invece, tentativo di legittimare un’interpretazione del reale (e dunque atto di presunzione) è particolarmente invisa a Jacov, con la sola eccezione dell’Ivan Il’ic di Tolstoj, caposaldo malinconico.
Va sottolineato, qui, l’aspetto comico del personaggio letterario che detesta l’opera che ne permette l’esistenza, un po’ come l’uomo che odia l’idea d’essere stato messo al mondo dalla volontà beffarda di un dio.
Colui che accetta l’inevitabilità della malinconia (e della polvere) va incontro al suo destino con serenità, mentre disperato è chi non lo fa, privato, con la consapevolezza che la malinconia è parte integrante dell’esperienza umana in quanto entità desiderante, dell’idea di essere completamente e sempre padrone di sé. Dinanzi a una sana accettazione della malinconia, crolla ogni presunzione umana, lasciando spazio a una speranza di rinascita che è quasi utopica. I libri entro i quali il protagonista condensa il pensiero malinconico sono, non a caso, battezzati Libri dell’origine come si trattasse di testi religiosi, la genesi di una nuova umanità malinconica e, per questo, veramente unita.