Voi la malattia, noi la cura. Cita così lo striscione in testa al lungo corteo che si oppone (tenuto a debita distanza da un massiccio dispiegamento di forze militari) alla conferenza dei potenti della Terra presso la Nuvola di Fuksas, a Roma. In migliaia – giovani, Fridays For Future, lavoratori, No Tav, comitati per l’acqua pubblica e il no al nucleare – sfilano chiedendo un impegno concreto al G20 che, nel frattempo, decide le sorti del mondo.
È una marcia diversa quella che da Ostiense si muove ordinata e compatta verso la Bocca della Verità, nel cuore della Capitale. Nessuna rivendicazione di libertà presunte o fallaci come quelle invocate dalle piazze no vax, spintesi a vestire, a Novara, i panni dei deportati di Auschwitz, oltraggiandone la memoria. Al contrario, i ragazzi e gli operai che fanno fronte comune per le strade di Roma si ritrovano sotto i colori dell’uguaglianza, dei diritti civili, della lotta al cambiamento climatico. Tornano le bandiere del popolo, i colori arcobaleno, i movimenti cittadini, tutto quanto, dunque, la politica continua a ignorare.
A pochi chilometri, all’EUR, i Capi di Stato delle nazioni più ricche del globo perpetuano nel bla bla bla condannato da Greta Thunberg in materia di climate change e non solo. Rappresentano l’80% del PIL mondiale e, per questo motivo, credono di poter disporre per ognuno dei popoli, anche quelli che non raccolgono sotto le proprie bandiere, come dimostrano quando affrontano il tema dei vaccini ai Paesi sottosviluppati o dei fondi da elargire loro per il superamento della crisi pandemica.
L’intervento in apertura del Premier italiano Mario Draghi sottolinea la drammatica discrepanza tra gli Stati presenti al G20 (capaci di immunizzare la loro popolazione al 70% tramite l’accesso ai vaccini) e le nazioni a basso e medio reddito (ferme al 3%), con i potenti a vestire i panni degli ipocriti benefattori, pronti a contribuire alla campagna vaccinale degli ultimi anziché considerare – come chiede la piazza, a dimostrazione che il popolo conosce i propri bisogni più di chi lo governa – la liberalizzazione dei brevetti osteggiata a Bruxelles.
Come ricordato, poi, dal Segretario Generale dell’ONU, Antonio Guterres, il G20 impegna il 28% del proprio bilancio annuale nelle politiche di ripresa dalla pandemia, mentre gli Stati a basso e medio reddito solo il 2%. «È urgente un impegno finanziario rivolto alle economie africane» dichiara, mentre il conciliabolo dei magnanimi della Terra parla, per bocca di Draghi, di redistribuzione delle risorse in ragione di 650 miliardi già distribuiti nella forma di 375 miliardi alle economie avanzate e solo 275 ai Paesi in difficoltà. Una misura bollata anche dai loro stessi sherpa come tappabuchi, che stimano necessari allo scopo tra i 1000 e i 2000 miliardi.
Tocca, dunque, anche al clima, l’unico argomento sul tavolo di cui sembra essersi accorta la stampa italiana, adoperato come specchietto per le allodole per la folla che, però, non si lascia distrarre: «Il G20 legittimerà nuove scappatoie per le grandi aziende inquinanti attraverso cui potersi certificare green senza realmente limitare le emissioni».
A fargli eco è – incredibile a dirsi – il Premier britannico, Boris Johnson, in questi giorni impegnato a fare gli onori di casa alla Cop26 di Glasgow, che del risultato dei negoziati di Roma parla come di gocce nell’oceano, aggiungendo che il flop dell’appuntamento scozzese sarebbe preludio di un disastro globale. «Dopo l’Accordo di Parigi del 2015 il mondo ha fatto solo bla bla bla sul fronte della lotta al cambiamento climatico. Ora è il momento di agire. Esistono le tecnologie e i soldi, ma serve la volontà».
Il riferimento è chiaro e diretto ancora una volta al Mario che tutto può, felice di aver tolto la seduta capitolina con la promessa del mignolino strappata all’India e alla Cina, contrarie all’azzeramento delle emissioni con termine 2050, ma disposte a sorridere alle fotocamere grazie alla clausola offerta loro entro o attorno la stessa deadline. Voi il G20, noi il futuro, chiamano, intanto, a gran voce i FFF, osservati speciali di droni e cecchini.
L’unico obiettivo davvero centrato in quel di Roma è l’approvazione della minimum tax (già sul tavolo dei governi da molti mesi), una stretta, seppur limitata, ai guadagni di colossi multinazionali come Google e Amazon, finalmente obbligati a pagare il 15% di imposte nei Paesi in cui operano e non esclusivamente presso il paradiso fiscale dove risiede il proprio domicilio legale. La misura inciderà, secondo le stime, per una cifra intorno ai 120 miliardi totali, senza però impattare in larga misura in Italia, dove la web tax discussa a inizio 2021 dal Parlamento già imponeva ai giganti di internet di contribuire all’erario dello Stato.
Un G20, dunque, in chiaroscuro, una nuova promessa anziché un serio impegno, un elenco di buone intenzioni a cui, non dovessero seguire azioni decise, i governi del mondo che conta risponderanno direttamente a quelle generazioni che sfilano con idee chiare a Roma come nel resto del pianeta. Chiedono uguaglianza sociale, equità, ridistribuzione del reddito a livello globale, un’azione concreta a salvaguardia dell’ambiente: la società è già più avanti di loro. Quei diritti sono nella testa della maggioranza delle persone. Voi la malattia, noi la cura. Voi il virus, noi il vaccino.