Il futuro, a Cuba – a soli 166 km di mare dagli Stati Uniti d’America – è una pagina bianca che in pochi azzardano a imbrattare d’inchiostro. Chi è tanto forte d’animo e coraggioso da impugnare una penna o una matita e disegnare un ipotetico scenario dei giorni a venire, richiama, probabilmente, i tempi gloriosi in cui Castro – Fidel, il líder máximo scomparso novantenne appena un anno e mezzo fa – provvedeva da sé al fabbisogno della sua nazione e della sua gente, contro quegli States così vicini ma mai così nemici e lontani come negli anni successivi alla Rivoluzione Cubana.
Colpa di un embargo che insiste sull’isola da quasi sessant’anni a causa di una politica restrittiva a qualsiasi altra ipotesi di governo, il comunismo castrista è ancora l’unica possibilità chiacchierata tra le vie de L’Avana, anche a pochi giorni, ormai, dal passaggio di testimone alla guida del Paese. Il prossimo 19 aprile, infatti, Raúl, fratello minore di Fidel, lascerà la leadership nelle mani di un uomo di apparato di lungo corso, tuttavia più giovane dei suoi ottantasette anni, in tutta probabilità Miguel Díaz-Canel. Come descritto, però, il futuro non appare che legato a una sorta di divinizzazione del recente passato, delle figure di Castro e del Che, Ernesto Guevara.
Le strade di Cuba, nella loro dignitosa povertà che non vede bambini chiedere l’elemosina, favelas e bidonville a proteggere le famiglie, figlia di una crisi economica che stringe comunque la sua morsa attorno alle classi più disagiate, si presentano ancora come una sorta di tempio dedicato ai due leader della rivoluzione, ai due volti dell’opposizione alla tirannia a stelle e strisce che per troppo tempo ha guardato all’isola dell’Atlantico soltanto per le vacanze. Anche il turismo statunitense, però, vive un periodo di crisi, in particolar modo dopo l’avvento alla Casa Bianca di Donald Trump che ha cancellato, in un battibaleno, quanto di buono costruì il suo predecessore, Obama, nel corso degli ultimi mesi della sua seconda presidenza, ribadendo la volontà di attuare con forza il provvedimento restrittivo.
L’ex Presidente, soltanto nella primavera del 2016, faceva visita a Raúl Castro – e quindi a Cuba – dopo un gelo di rapporti diplomatici e incontri tra le due nazioni che insisteva da ottantotto anni, auspicando la fine dell’embargo e l’apertura di un canale tra L’Avana e Washington. Sotto un ritratto del Che suonavano le note di The Star-Spangled Banner. «È l’inizio di un giorno nuovo», sosteneva Barack Obama lasciando l’isola. Per la prima volta dagli anni Sessanta, i rapporti tra le due nazioni tentavano una distensione storica.
E per quanto Fidel non guardò con altrettanta speranza a quell’incontro – «Nessuno s’illuda che il popolo di questo nobile e sacrificato Paese rinuncerà alla gloria e ai diritti, alla ricchezza spirituale conquistata con lo sviluppo dell’istruzione, della scienza e della cultura. – dichiarava – Non abbiamo bisogno che l’Impero ci regali nulla» – le domande sul futuro di Cuba, sulla sua apertura al mercato globale, alla modernizzazione imposta dagli Stati Uniti, dalle catene di fast-food all’utilizzo libero di internet e dei social network, tenevano e ancora tengono in ansia quanti nell’isola della rivoluzione vedevano e vedono una speranza di ribellione a quella silenziosa sottomissione a cui il mondo occidentale e il capitalismo hanno sottoposto qualunque angolo del pianeta.
Il futuro, a Cuba, è una pagina bianca che in pochi azzardano a imbrattare d’inchiostro. Le prossime pagine racconteranno di leader politici mai dimenticati a cui il popolo affiderà tutta la propria nostalgia, poi la memoria, come già successo in Europa dalla caduta del Muro di Berlino, potrebbe non bastare, forse neanche più le preghiere.
Cuba ha bisogno di un intervento che miri a rinvigorirne l’economia, ad alleggerire la crisi che soffoca chi non ha niente e nel governo fatica a trovare un solido alleato, a offrire di più di un sistema sanitario gratuito ancora in forze. Le speranze sono poche sia che si guardi al passato, che appare improvvisamente troppo lontano, sia che si rivolgano le proprie suppliche al domani, troppo incerto e affidato a una strada troppo lunga e faticosa.