La letteratura è strumento privilegiato d’incursione nella mente. I pensieri, riordinati in fila per essere detti a voce o scritti su carta, non sono, forse, storie? Del mondo interiore facciamo racconto e, attraverso quel racconto, siamo. La coerenza, la coesione, l’affidabilità, la linearità del narrare diventano anche caratteristiche personali, tratti distintivi, vezzi, difetti. Il modo in cui le parole si incastrano suggerisce mondi interiori inquieti o placidi, tormenti dell’anima.
Spezzare il patto con la linearità narrativa implica che il flusso delle parole straripi, lasciando zampillare un disagio, un disturbo che interrompe il racconto di sé, che impedisce o ostacola apertamente l’attività autoriale. Dalle parole straripate bisogna partire, per parlare del romanzo di Leonardo G. Luccone Il figlio delle sorelle (Ponte alle Grazie). Il protagonista e voce narrante, che non ha un nome, forsennatamente tenta di intrappolarle, e intrappolarsi, in una definizione. Così facendo, accatasta sulla pagina lunghe sequenze di aggettivi e il tentativo di circoscriversi al perimetro di una rappresentazione sola si moltiplica all’infinito, producendo l’effetto contrario di una confusione certosina e ossessiva.
Il bisogno di placare le parole deriva dall’incessante ronzio di voci che usurpa la testa del protagonista: non a caso, all’inizio del romanzo compare un elenco dei personaggi della vicenda, voci che si alternano su un palcoscenico, e gran parte del testo è scritto in forma di dialogo. Si potrebbe operare una distinzione, anzi, fra le parole parlate, quelle che effettivamente lasciano lo spazio infestato della mente di lui, e la densa massa di parole solo pensate, che modificano le persone, la realtà, il passato.
Il protagonista si aggrappa restio al presente dei discorsi di Sabrina, la figlia adolescente ritrovata dopo la separazione non ufficializzata dalla moglie. Il concepimento e la nascita di questa figlia avevano sancito per lui lo scollamento definitivo, il punto di frattura di ogni pretesa stabilità. Si era convinto di essere stato circuito a prendere parte a un rituale quasi più magico che clinico che avrebbe prodotto come risultato la bambina in fasce. Sua moglie e sua sorella, di comune accordo, avevano preso a confonderlo, a farlo dubitare dei sensi, vestendosi, truccandosi, comportandosi in maniera identica affinché lui potesse convincersi che stare con una piuttosto che con l’altra sarebbe stata la stessa cosa, avrebbe dato lo stesso frutto.
La dualità rituale ricorre anche altrove, nel romanzo: ad esempio, sulla scena non sono quasi mai presenti più di due persone e l’incontro fra coppie è sempre rivelazione di una forza sopita e spaventosa che sta dentro, nascosta da corpo e parole. Sabrina, che nella mente del protagonista è frutto del soffocante intervento materno di due donne consanguinee, riesce a ritrovare il padre grazie all’amica Carlotta, figlia della nuova compagna di lui. Com’era accaduto per le due sorelle originarie, le ragazze cominciano a prendere agli occhi del protagonista l’una le sembianze dell’altra, l’una il posto, il ruolo, la voce dell’altra.
Anche le sorellastre vogliono un bambino, stavolta senza ingannare il maschio, il padre, ma costringendolo comunque a spezzarsi davanti al ripetersi del rito doppio. Le parole pensate tornano così a disperdersi in una moltitudine di cicli ossessivi, di inganni e autoinganni. Anche quando il protagonista non è presente, sono presenti le sue suggestioni. Il periodo passato in Sicilia con Sabrina diventa, allora, il racconto del simbolico e sensoriale passaggio di lei all’età adulta, mentre lui continua a fare i conti con il passato e una condizione dalla quale non riesce a uscire, perché trovare un ordine e una conferma alle vecchie storie è impossibile. Tenta di farlo Sabrina, che scrive lettere e lunghe e-mail alla zia, alla cugina, senza ricevere risposta, che fruga fra vecchie foto alla ricerca dell’incontrovertibile evidenza della mamma con il pancione, che si districa e si destreggia nel silenzio mistico delle donne di famiglia.
A emergere dalla lettura è la figura di un uomo in crisi, padre per altrui decreto e, ironia della sorte, solo nella paternità capace di tenersi in equilibrio. Le sue fragilità, le sue sconnessioni, le voci che gli affollano la testa, tenute a bada solo dall’incontro e dal confronto con la figlia delle sorelle.