I nostalgici possono dirsi ben soddisfatti di questo governo, che, seppur manchevole sulla puntualità dei treni, in termini di legiferazione e sicurezza è stato in grado di partorire quanto non era stato immaginato neppure in epoca fascista, ricorrendo nuovamente al sistema penale, strumento che preferisce e di cui ha fatto largo uso fin dal suo insediamento.
Ennesima spinta securitaria già vista con il decreto cosiddetto “anti-rave” e poi con il Decreto Caivano – che ha fatto aumentare vertiginosamente la presenza dei minori in carcere, senza però interrogarsi in alcun modo sulla loro educazione e presa in carico preventiva – il Disegno di legge 1660, recante Disposizioni in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio, nonché di vittime dell’usura e di ordinamento penitenziario, è stato approvato il 18 settembre dalla Camera dei Deputati ed è ora all’esame del Senato.
Il testo è stato presentato a gennaio ed è arrivato all’approvazione dopo un periodo di lunga indifferenza per poi essere discusso in pochissime sedute. Un disegno di legge – rispetto a cui non ci aspettiamo grandi stravolgimenti da parte del Senato – che può essere definito spaventoso poiché lancia il Paese in un baratro lontano decine di anni e colpisce maggiormente chi è già marginalizzato e chi osa protestare.
Partiremo proprio da una delle disposizioni che sfida maggiormente lo Stato di diritto: l’introduzione, all’articolo 415 bis del Codice Penale, del reato di rivolta nelle carceri e nei CPR. L’articolo 26 del disegno di legge dispone che chiunque, all’interno di un istituto penitenziario, mediante atti di violenza o minaccia, di resistenza anche passiva all’esecuzione degli ordini impartiti ovvero mediante tentativi di evasione, commessi in tre o più persone riunite, promuove, organizza o dirige una rivolta è punito con la reclusione da due a otto anni. Per il solo fatto di partecipare alla rivolta, la pena è della reclusione da uno a cinque anni. Se il fatto è commesso con l’uso di armi, la pena è della reclusione da tre a dieci anni. Se dalla rivolta deriva una lesione personale, la pena è aumentata; se ne deriva la morte, la pena è della reclusione da dieci a venti anni. Le pene di cui al quarto comma si applicano anche se la lesione personale o la morte immediatamente dopo la rivolta e in conseguenza di essa.
Una disposizione talmente vaga che nell’ambito della cosiddetta resistenza passiva potrebbero rientrare numerosi episodi della vita detentiva, dallo sciopero della fame alla battitura pacifica, manifestazioni e richieste di aiuto sacrificate in nome di generiche esigenze di ordine e sicurezza. Viene meno anche il principio dell’offensività se si pensa che non è chiaro quale sia il bene che si sta tutelando e considerato che si viene pesantemente puniti senza far riferimento a eventuali danni o lesioni a cose e persone, ma per il semplice fatto di aver osato disobbedire.
La previsione viene estesa, con l’articolo 27 del disegno di legge, anche ai CPR che rappresentano, insieme alle carceri, (non) luoghi in cui le condizioni di vita sono terribili e in cui nel nostro Paese releghiamo tutto ciò che non desideriamo vedere, dalla povertà al disagio mentale, dal dissenso alle tossicodipendenze. Sono oltre 60 le persone che si sono tolte la vita in carcere in questo 2024, detenuti che probabilmente hanno provato a chiedere aiuto e che hanno ricevuto come risposta solo indifferenza e repressione. Per i nostri rappresentanti politici, nascondere i problemi sotto il tappeto, e soffocare quindi qualsiasi richiesta di aiuto o protesta, equivale ad averli risolti.
In questa disciplina variegata si è proprio trovato il modo di inserire tutto e così si sfrutta l’occasione per strizzare l’occhio anche alle aziende private, prevedendo una semplificazione delle relazioni tra le imprese e le strutture carcerarie nell’ambito del lavoro, esterno o interno, svolto da chi sta scontando una pena. Per quanto apprezzabile lo sforzo teorico di riformare gli aspetti del lavoro carcerario – praticamente inesistente – è innegabile che la tendenza sia, ancora una volta, la privatizzazione di attività istituzionali e l’arricchimento di privati per il raggiungimento di un benessere collettivo.
Con il ddl sicurezza il Governo Meloni dimostra che il suo sport preferito è l’introduzione di nuove fattispecie di reato: più della metà degli articoli del disegno di legge introduce nuovi reati o inasprisce le pene già previste, rivolgendosi a specifiche categorie sociali che vengono individuate a priori, in barba a qualsiasi principio giuridico. E così, dopo averlo tanto annunciato, si ottiene che non sia più obbligatorio il differimento della pena per donne incinte o con prole di età inferiore a un anno e, allo stesso tempo, si introducono specifiche fattispecie di reato costruite su gruppi sociali ad hoc. Basti pensare alla trasformazione da illecito amministrativo a reato del cosiddetto blocco stradale o “di una ferrovia”, o alla previsione di aggravanti specifiche se i fatti avvengono per “impedire la realizzazione di un’opera pubblica o di un infrastrutture strategica”. Si fa chiaramente riferimento agli attivisti ambientalisti o ad esempio ai gruppi NO TAV.
Le parole d’ordine sono repressione, segregazione, marginalizzazione, nella maggior parte dei casi senza alcun fondato motivo o giustificazione: basti pensare alla previsione sulla necessità di mostrare il permesso di soggiorno per acquistare una sim se si è stranieri. Una simile disposizione non ha altro fine se non quello di ghettizzare chi vive ai margini, togliendogli anche la possibilità di comunicare e di mantenere le proprie relazioni sociali, spesso già difficili.
Ancora, torna l’ossessione di questo governo per la tutela delle forze dell’ordine, da un lato perché si prefigurano chiaramente cittadini di serie b e cittadini di serie a – prevedendo numerosissimi aumenti di pena nel caso in cui vittime di reati comuni siano pubblici ufficiali –, dall’altro perché si continua a intessere una serie di privilegi per le divise. Tra questi, la possibilità di portare con sé l’arma anche quando non si è in servizio, un’ampia legittimazione a usare la forza in condizioni di disobbedienza e/o resistenza e addirittura la possibilità di ricevere un rimborso per eventuali spese legali sostenute per processi riguardanti fatti inerenti il proprio servizio. Tutto ciò a dimostrazione del fatto che non abbiamo assolutamente imparato nulla da alcuni incresciosi fatti di cronaca.
E così, mentre qualcuno potrebbe rovinarsi la vita per le norme appena introdotte nel tentativo di costruire un mondo migliore, potremmo vedere ad esempio gli agenti indagati per la mattanza del carcere di Santa Maria Capua Vetere ricevere anche un rimborso per il troppo fastidio di essere coinvolti in una simile vicenda giudiziaria. Qualcuno parlerebbe di mondo invertito: non sono essi rappresentanti dello Stato, le cui responsabilità giudiziarie dovrebbero essere considerate più gravi proprio in ragione del ruolo che rivestono?
Il disegno di legge, inoltre, è farcito da norme proibizioniste che limitano la coltivazione della cannabis light e una serie di altre disposizioni che sarebbe difficile ripercorrere tutte ma il cui schema ricorrente è l’affrontare questioni e dinamiche sociali con lo strumento penale e la repressione.
Molti dei reati introdotti in realtà oltre a essere inumani, e spesso antigiuridici, sono una ripetizione di quanto è già previsto dal Codice Penale e non hanno altro scopo se non quello di nutrire una becera propaganda elettorale fatta sulla pelle dei più deboli.
Diverse disposizioni saranno molto probabilmente oggetto di una dichiarazione di incostituzionalità perché in violazione sia della libertà di espressione e di manifestazione del pensiero sia dei più basilari diritti umani e principi costituzionali, ma fino ad allora tocca a noi riprenderci le piazze e rivendicare il nostro spazio di libertà.