Negli ultimi tempi, lo spettro di un’apocalisse atomica è tornato a minacciare le nostre immaginazioni. Più o meno velatamente, la minaccia nucleare si insinua nei talk in tv, sui giornali, perfino nei video di intrattenimento su TikTok e YouTube (dove viene spiegato come sopravvivervi grazie a pratiche guide). La bomba atomica evoca suggestioni di apocalisse talmente vivide da ispirare interi filoni narrativi e video-ludici ambientati in mondi distrutti dalla potenza dell’atomo. Quegli scenari fantasmatici sono espressione di fiction di devastazione reale, di lande consegnate all’eternità del tempo come radioattive.
I test delle atomiche sganciate sul Giappone alla fine della Seconda guerra mondiale vennero effettuati in territorio shoshone, nel Sud-Ovest degli Stati Uniti. Dopo il conflitto, per tutto il periodo della Guerra Fredda fino al 1992, i governi USA hanno continuato a svolgere attività di testing delle testate nucleari nel deserto del Nevada, cagionando danni incalcolabili alla flora e alla fauna locali e alla salute delle comunità che abitano quelle aree. Anche il Regno Unito ha svolto, dal ’52 fino al 1991, i propri test atomici, detonando quarantacinque testate fra il Nevada Test Site e le basi australiane di Maralinga e Montebello.
Tragica e apocalittica è anche la storia dei test atomici svolti dagli Stati Uniti nelle Isole Marshall, nell’atollo corallino di Bikini, nel Pacifico, dove, tra il 1946 e il 1958, vennero detonati venticinque ordigni. Il paesaggio è stato deturpato in maniera definitiva, i detriti sepolti sotto una bara di cemento in mezzo all’oceano. Le isole sono ancora radioattive, un panorama apocalittico. La parola test può trarre in inganno: è bene ribadire che non si è mai trattato di simulazioni, ma di veri e propri ordigni fatti esplodere sulle terre delle popolazioni indigene a scopo di ricerca e sviluppo.
I paesaggi del colonialismo nucleare sono luoghi in cui l’idea occidentale di apocalisse si è fatta concreta, in cui si manifesta la promessa utopica della sopravvivenza di un Ovest egemone mentre, tutto intorno, tutto il resto brucia. Nostra è l’illusione di avere la possibilità di vivere la rinascita senza affrontare la fine. La minaccia della morte si trasforma in emergenza che può essere superata. In questo scenario, la retorica della sicurezza, del bene superiore e del male minore, occupa tutti i livelli del discorso, nel senso che la tendenza discorsiva a livello istituzionale e mediatico è quella di mostrare la possibilità dell’apocalissi come concreta, ma fisicamente lontana da noi quel tanto che basta a continuare a giustificare politiche di guerra e di esclusione.
La soluzione proposta dall’alto ci assicura la protezione e l’incolumità a ogni costo, a patto che fingiamo di non vedere le implicazioni profonde di un simile compromesso. La ricostruzione lineare del tempo storico occidentale, l’utopia che ha provato a costruire sui pilastri del libero mercato e della proprietà privata, passa per l’apocalisse di qualcun altro. L’epoca moderna viene fatta coincidere con la “scoperta” dell’America, l’era geologica dell’Antropocene con la detonazione delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki.
L’arrivo degli europei nelle Americhe ha significato, per il Vecchio Continente, rinnovamento, progresso tecnologico, prosperità. L’espansione degli imperi coloniali nella terra nullius e vergine americana è stata possibile attraverso operazioni di espropriazione e cancellazione sistematica delle popolazioni indigene, nonché dell’importazione di schiavi da altre colonie per il lavoro nelle piantagioni. La concretizzazione dell’utopia occidentale nel destino manifesto è apocalisse che perdura per le comunità native degli Stati Uniti, del Canada, dell’Oceania. E, lungi dall’essere un evento conchiusosi a un certo punto nel passato, dal quale è possibile distanziarsi o fare ammenda, le sue istanze egemoniche e la protezione di queste ultime continuano a forzarsi sui territori abitati dagli indigeni ancora oggi. Anche il passaggio all’Antropocene si configura, come abbiamo visto, attraverso un’apocalisse di umana matrice.
La scelta dei luoghi perpetra l’ideale coloniale, in una logica di progresso e profitto ottenuto attraverso l’oppressione di soggetti resi deboli e marginalizzati. Le aree desertiche, l’atollo remoto, corrispondono, nell’immaginario del colonizzatore occidentale, a zone di vuoto, la cui devastazione è più redditizia della loro esistenza.
Oggi, il senso della fine sta sullo sfondo di ogni altro racconto, insinuando la sua minaccia in maniera più o meno aperta. Il tempo dell’emergenza è occupato dal racconto del conflitto in Ucraina, dagli accenni, anche solo velati, alla degenerazione atomica. Così, l’insistenza sul dolore della popolazione ucraina (soprattutto quella di donne e bambini) tra le macerie fa appello, da una parte, al sentimento di umana rabbia e frustrazione che porta a giustificare sul piano morale le azioni armate offensive di risposta; dall’altro fa da monito, da overture dell’allargarsi catastrofico del conflitto.
Il conteggio mediatico dei giorni di guerra somiglia a un macabro conto alla rovescia, qualcosa che risveglia la paura del conflitto atomico. Su un piano idealmente narrativo, è come se riuscissimo a uscire da un’emergenza solamente quando ce n’è un’altra (peggiore, definitiva) pronta a sostituirla. I nostri prima e i nostri dopo sono, dunque, scanditi da fini sempre nuove e il qui e ora rimane ancorato alla speranza di ritornare com’eravamo nel futuro della ripartenza, del ripristino, della resurrezione. Frank Kermode scrive che l’idea stessa del tempo esiste, per noi, solo come intervallo tra una fine e l’altra: il concetto di fine porta, in qualche modo, al suo interno anche il seme della nuova origine. Il sentimento nei confronti dell’apocalisse è, pertanto, sempre ambivalente perché, assieme alla paura, siamo pervasi della convinzione che la fine punisca e purifichi al contempo, facendoci tornare al mondo senza peccato.
Il fatto che dalle attuali premonizioni apocalittiche di conflitto atomico sia completamente assente un ragionamento sul colonialismo nucleare, sulle più di duemila esplosioni a scopo di test dal ’45 al 2017 su suolo indigeno, rivela ancora una volta il nostro egoismo, la nostra ipocrisia davanti alle invocazioni di pace. Raccontare l’apocalisse non come fine inevitabile e senza agenti, ma come processo continuativo profondamente legato al nostro intervento può essere, allora, uno strumento discorsivo utile a non chiudere il tempo in un intervallo tra due fini, a spezzare la promessa utopica di diventare migliori, la prossima volta.