Qualche settimana fa sono stata a cena in via dei Tribunali a Napoli. Non ci tornavo volontariamente da molto tempo perché chi conosce la città sa che questa zona ormai è appannaggio solamente dei turisti. Non che la questione faccia notizia, tutto il centro storico ha una spiccata vocazione ricettiva, basti pensare a San Gregorio Armeno e a Spaccanapoli.
Dico “volontariamente” perché di solito cerco di evitare quei posti che mi sembrano escludere gli abitanti locali nell’ordine di un’offerta rivolta quasi unicamente ai visitatori. Tuttavia, su invito di un amico giornalista, mi sono ritrovata nel ristorante I Gerolomini situato nel cuore di via dei Tribunali, proprio di fronte alla Chiesa dei Girolamini, e durante la serata ho avuto un interessante scambio di opinioni con gli altri ospiti che erano a tavola con me, lo chef, la responsabile dell’ufficio stampa e la designer/architetto che ha curato il progetto di ristrutturazione e allestimento degli interni.
La nostra chiacchierata si è naturalmente concentrata sull’involuzione di un luogo che ha molto da offrire, ma che diventa sempre più territorio di una speculazione selvaggia, di basso profilo e di dubbia qualità: basta camminare per i cardi e i decumani del centro storico per assistere a una vera e propria fiera dell’orrore, alla nascita istantanea di bugigattoli che esalano nuvole di vapori e puzza di fritto, allo spuntare da un giorno all’altro di locali commerciali che spacciano un cuoppo o una zeppola per “la vera qualità” di Napoli, ai balletti di buttadentro con mandolino e maschera di Pulcinella. A condire il tutto, file e file di bandierine dei paesi più fantasiosi, di finti panni stesi, di cappelli, di cartonati colmi di frasi dialettali. Forse si pensa che il turista, soprattutto quello straniero, ami perdersi in budelli claustrofobici col naso all’insù, a fotografare pezzi di cielo tra cui compare ora un aforisma di Totò ora la bandiera delle Barbados (giammai far passare Napoli come una città non inclusiva).
Una deriva analoga l’hanno già vissuta i Quartieri Spagnoli o, meglio, le ultime falangi dei Quartieri Spagnoli a ridosso di via Toledo: cuori enormi di cartone, striscioni, bandiere, mutande appese, berretti di plastica, persino archi quasi circensi in cui infilare il viso per farsi fotografare. Che quella zona sia ormai perduta forse non è molto chiaro nemmeno ai napoletani, eppure così è: gli abitanti hanno fatto spazio, hanno dovuto sloggiare per lasciare terreno utile alla costruzione di b&b, case vacanze, pensioni, hotellucci, pizzerie, tarallerie, cuopperie, friggitorie, insomma, qualsiasi tipo di farlocca imitazione del più famoso e ormai macchiettistico Nennella, un ammasso senza capo né coda che quasi viene vomitato giù, tanto che quando mi capita di passare per via Toledo distolgo lo sguardo.
E se i Quartieri Spagnoli sono perduti, stesso allarmante percorso stanno intraprendendo Sanità e Forcella, e lo dico davvero con una pena nel cuore perché poco manca affinché, anche qui, retrocedere diventerà un processo impossibile: qual è esattamente il senso dei cappelli colorati in zona Mario Pagano appesi tra un palazzo e l’altro? Sono un sinonimo della multietnicità del quartiere? E la questione dei panni stesi lungo via dei Tribunali una volta superata via Duomo?
Se proviamo a cercare fotografie storiche di una cinquantina di anni fa, e forse qualcosa in più, non ci meraviglieremmo nello scoprire quanto le stradine di tutta Napoli fossero soffocate da balconcini carichi di bucato, dunque non è qualcosa di inventato o di esclusivo. Io qui non sto contestando il cosa, ma il come: davvero vogliamo far passare la città come un’enorme centrifuga che sbatte sulla testa della gente magliette, grembiulini, volgarissimi reggiseni di pizzo e perizomi messi lì di proposito per dare l’impressione di trovarsi in un luogo rimasto autentico e popolare, legato al suo passato di miseria?
Una città come Napoli, che della ricchezza culturale di impagabile qualità e varietà potrebbe fare un fiore all’occhiello, si perde appesa a una corda di nylon. Il risultato, com’è ovvio, è la fuga di una parte di abitanti da questi luoghi, non solo in termini di abbandono vero e proprio dell’abitazione, ma di una dispersione tout court verso altre zone meno usurpate: leggo dappertutto che qui, in città, si può ancora usare il termine turistificazione e non ancora gentrificazione, ma a mio avviso, siamo già oltre quest’ultima.
È vero che l’arrivo del turismo di massa ha aiutato il centro storico a emergere, a ripulirsi da quella nomea di terra di nessuno in mano a gente che ti rapinava se solo osavi entrarci dopo un certo orario – a questo proposito consiglio la lettura di Appugrundrisse di Paolo Mossetti edito da minimum fax – ma, e questo è il timore più grande, trovo che l’ago si stia spostando verso l’eccesso opposto: una violazione e una svendita senza controllo di una fetta della città che soccombe sotto il peso di una richiesta scadente e di un’offerta ancora più scadente, frutto di una politica che cammina coi paraocchi e che si accontenta di lucrare sul centesimo della pizza fritta.
Potrei elencare tantissimi tesori affogati da queste scelte scellerate: la stessa chiesa dei Gerolamini, il Teatro Elicantropo, l’Ospedale della Pace e il suo lazzaretto di via dei Tribunali (in completo abbandono) di cui, sono sicura, pochissimi hanno sentito parlare. Palazzo Degas nel bel mezzo di Piazza del Gesù, a cui si può accedere gratuitamente, la Fontana della Spinacorona poco lontana dalla Pizzeria da Michele, ignorata completamente. E, davvero, potrei stare qui giorni e giorni a stilare una lista di ogni posto sconosciuto della città senza mai fermarmi, andando avanti a oltranza, e invece no, vendiamo quattro pizzette e souvenir in croce perché impastare un po’ d’acqua e farina è più semplice e redditizio che rimettere in piedi un edificio storico.
Si potrebbe obiettare: ma questo succede in tutte le grandi città del mondo, pensiamo allo scempio avvenuto a Venezia!, e io sarei d’accordo, con l’unica postilla che Napoli non è una grande città come le altre, inutile farne una prosopopea o un racconto poetico, è semplicemente un dato di fatto: in positivo, abbiamo l’ex capitale di un regno; in negativo un groviglio di abusi, criminalità, ignoranza e disprezzo per le regole, e questa sua natura bifronte si riversa in ogni atto e scelta.
Certo, qualcuno potrebbe anche pensare che il discorso di evitare il centro storico sia snob o addirittura vigliacco, e forse in un certo senso anche questo è vero. D’altra parte, Napoli è dei suoi abitanti, perché mai dovrebbero disperdersi o allontanarsi dai propri luoghi d’origine? Eppure è vero anche il contrario, ché è parecchio difficile camminare e assistere a certi scempi, e non parlo di sporcizia o indecenza (io che sono arrivata a Napoli nel 2007 in piena emergenza rifiuti so di cosa parlo) ma di un oscuramento dettato sia dalla non conoscenza di tutto ciò che ci sarebbe da portare alla luce che dalla mancanza d’impegno politico e sociale soprattutto in termini di consapevolezza.
Ci si limita a narrazioni stantie, a rappresentazioni della città come un insieme di best spot, must see, must go, where to go, what to do in one day, contribuendo ad alimentare solo una faccia della medaglia, quella della città d’ ’o mare e d’ ’o sole, del vedi Napoli e poi muori. Persino il Time, che pochi giorni fa ha confermato Napoli come una delle migliori mete al mondo, reitera questa cronaca superficiale che, ça va sans dire, lascia credere ai turisti di arrivare in un lunapark straripante montagne di cibo e giostre con la testa di Pulcinella. E Napoli come risponde? Con montagne di cibo e teste di Pulcinella.
Spesso mi capita di accogliere amici che vivono altrove e che quando camminano per Napoli insieme a me restano impressionati in due modi diversi: alcuni impazziscono per il folklore, altri intuiscono il potenziale sprecato. Forse si dovrebbe lavorare in quest’ultimo senso: non è forse vero che il turista medio che visita Napoli non ha la minima cognizione del posto che sta visitando? E lo sta poi davvero visitando?
Nella maggior parte dei casi si lascia semplicemente trascinare dal flusso di folla e dalle mode dettate da social come Instagram e TikTok. Chiaramente non gliene faccio una colpa, bisogna anche saper distinguere tra semplice turista e consapevole viaggiatore, ma riflettiamo un attimo sull’impressione che la città lascia a prima vista a una persona normale che resta per qualche notte: un giro a San Gregorio Armeno, la fila di tre ore per mangiare la pizza da Michele o Sorbillo, un’altra fila di tre ore per visitare il Cristo Velato, una sfogliatella e un caffè al Gambrinus, il giorno dopo una passeggiata a Mergellina, foto al Vesuvio, foto a Castel dell’Ovo, foto alle bandierine e ai panni appesi, una giravolta in piazza del Plebiscito e tanti saluti e grazie.
Eppure, se pensiamo che questo sia tutto ci sbagliamo, ci sono realtà che provano a invertire la tendenza, che cercano di riappropriarsi dei propri spazi: la Cooperativa Manallart che accompagna alla scoperta dei tesori di Sanità, la Onlus L’altra Napoli che opera a Forcella, la Soprintendenza Archeologica Belle Arti che ha contribuito a riaprire l’ipogeo dei Cristallini, persone come i Malinconico che portano avanti un’attività di quartiere da più di cent’anni, la famiglia Oste, eccellenza nel design e nella gioielleria di Borgo dei Vergini. Ed è vero: è grazie ai riflettori puntati sulla città che alcune grandi realtà si stanno interessando a spostare qui i propri interessi, penso alla Galerie Gisele Capitain di Colonia che in questi giorni espone a Palazzo Degas o a tutti gli artisti, i designer, i professionisti che scelgono Napoli.
E, dunque, battiamo su questo chiodo, dislochiamo il focus dal discorso cibo-panni stesi-tarantella per valorizzare anche tutto il resto. Chiaro che non è semplice, ma il prezzo da pagare, se lasciamo le cose così come stanno, è la perdita irreversibile di una stratificazione culturale che tanto vorrebbe urlare “ci sono anche io”.