Il caso che ha visto coinvolto il centrocampista della nazionale danese e dell’Inter Christian Eriksen (con il malore che lo ha colpito sabato scorso nella partita inaugurale della sua nazionale che lo costringerà all’impianto di un defribillatore sottocutaneo) ha mostrato – e dimostrato – a tutti la necessità di un mondo gentile, solidale, una comunità vera, tangibile, fatta di cura e protezione verso il più debole. Tutto quanto, insomma, i suoi compagni di squadra hanno adoperato durante i tragici minuti in cui il calciatore ventinovenne combatteva tra la vita e la morte e, al contrario, i media hanno offeso con il loro atteggiamento morboso verso le condizioni critiche di Eriksen da vendere all’audience.
Gli attimi della tragedia sono stati trattati dallo staff danese e dai tifosi sugli spalti dello Stadio Parken in maniera diametralmente opposta agli esponenti di stampa e televisioni. I calciatori, non appena compresa la gravità della situazione, hanno fatto cerchio attorno al loro compagno, proteggendolo dallo sguardo ossessivo delle telecamere, un muro umano chiuso a protezione di Christian Eriksen mentre riceveva le cure che lo restituivano alla vita. Nel corso di quegli attimi eterni, nelle ore e nei giorni successivi, il mondo dell’informazione, invece, ha rilanciato le immagini del numero 10 mentre si accasciava, poi, il fermo immagine dell’unico varco scovato tra le braccia dei suoi compagni, con Eriksen che lasciava il campo attaccato al respiratore.
Il muro eretto dai giocatori in maglia bianco-rossa è il rifiuto all’istinto malsano della nostra epoca di mettere in scena il dolore e commentarlo a ogni costo, un gesto dal valore simbolico straordinario che, però, non ha intenerito chi da quello sguardo perverso trae il proprio profitto. Addirittura, qualche testata online ha fatto precedere al video del malore accorso a Christian Eriksen il consueto messaggio pubblicitario oppure accompagnato alle foto della compagna del centrocampista dell’Inter i gossip sulla coppia.
Così, mentre il solito Libero titolava Non riescono a rianimarlo mentre Eriksen giocava la partita più importante della sua giovanissima vita che stava spezzandosi, all’indomani la Gazzetta dello Sport pubblicava lo scatto sopracitato del calciatore in barella e faceva sfoggio della foto sequenza dell’accaduto a pagina 2. Chi è meglio di chi? Si può parlare del diritto alla cronaca a cui tanti si sono appellati? No. Assolutamente no. E le migliaia di commenti indignati del popolo social lo testimoniano, un coro unanime a condanna di questa normalizzazione dell’indecenza.
Così, per una volta, i social hanno smentito loro stessi, il mondo eccessivo che hanno contribuito a creare e, alle scene di Christian che si aggrappava alla sua giovane età, hanno risposto con il coro meraviglioso e spontaneo delle tifoserie di Danimarca e Finlandia che si alternavano chiamando il nome del campione della nazionale di casa al Parken: Christian – Eriksen!.
Non è solo sport, non è solo cronaca. Quella di speculare sulle immagini del dolore è una pratica ormai cavalcata da ogni giornale, ogni emittente televisiva. Alla stessa maniera in cui i media hanno cercato di perforare il muro di dignità di Kjaer e compagni, ieri i quotidiani online rendevano virale i fotogrammi che ritraggono il disastro della funivia del Mottarone. Così, con un semplice click, le immagini della cabina che si staccava dai cavi e finiva nel vuoto rimbalzavano sugli schermi di tutta Italia.
Cosa ha aggiunto quel video a quanto non si sapesse già della disgrazia accaduta in Piemonte? Quale altra ragione si cela dietro la scelta di diffondere la registrazione della videocamera di sicurezza della funivia se non quella di monetizzare tramite il clickbait e la curiosità morbosa dell’utente? Perché risulta sempre così semplice accantonare ogni deontologia e insultare la fragilità di chi, in quei momenti, non può difendersi?
Vale per le vittime del Mottarone e vale per Christian Eriksen, offerti all’altare sacrificale del guadagno a tutti i costi, del business dell’orrore che non conosce la privacy, figurarsi l’umanità che sarebbe dovuta. E, allora, ci dissociamo noi, anzi prendiamo posto: non certo di fronte all’ennesima tv accesa sulle partite dell’Europeo 2020, ma tra gli spalti, quegli spalti colorati e bellissimi, caldi di tutto l’amore che due nazioni del nord del continente hanno riversato su un ragazzo di soli ventinove anni che diceva no a un destino che sembrava giunto a spegnere la luce del suo sorriso. E urliamo con loro: Christian – Eriksen!.