Che sarebbe mai successo a voi se solo foste nati dove sono nato io
E che cosa è successo a noi che non siamo nati dove siete nati voi
Che non siamo mai stati padroni nemmeno di noi
Qualche giorno fa, ascoltando queste parole di un testo di Vinicio Capossela, mi è tornata in mente una riflessione dell’Associazione Antigone che mostrava le percentuali di persone detenute nelle varie zone d’Italia, tanto maggiori quanto più ci si avvicinava al Sud. In particolare, quasi il 70% della popolazione reclusa italiana al 30 giugno 2023 veniva da sole quattro regioni: Campania, Sicilia, Puglia e Calabria. Cosa sembrerebbe dire a primo impatto questo dato? Forse che esistono persone che sono più predisposte di altre a delinquere in ragione della loro provenienza?
Simili teorie sociologiche e criminologiche dovrebbero essere superate da tempo, eppure nessuno sembra stupirsi di tale dato, anzi lo dà per prevedibile. In più di un’occasione mi è capitato di leggere sui social di persone che considerano i meridionali come naturalmente meno avvezzi al lavoro o più propensi a delinquere. Quando qualche mese fa la cosiddetta vela Rossa di Scampia andò a fuoco, i commenti di chi gioiva perché poteva esserci la remota possibilità di liberarsi di qualcuno tra i suoi abitanti e frequentatori non furono affatto pochi. Conosciamo bene, inoltre, le reazioni dei più di fronte al beneficio del reddito di cittadinanza: si considera chi ne usufruiva un nullafacente ingrato che ora è stato punito con l’eliminazione del sussidio per la sua pigrizia, nella soddisfazione diffusa di una guerra ai poveri (che meritano di esserlo si intende). Parlare di questione meridionale può forse sembrare anacronistico ma in realtà è più che attuale, non trattandosi di un tema né superato nei fatti né nell’immaginario comune.
Il motivo principale per cui in determinate zone c’è un tasso di criminalità maggiore è che la questione penale e quella sociale sono irrimediabilmente connesse: i redditi pro capite in certe aree sono statisticamente più bassi, le condizioni sociali, economiche e culturali sono peggiori, lo sfruttamento è ordinarietà. Solo partendo da questi semplici assunti è possibile affermare che la diffusione dei reati non può essere arginata con il solo strumento penale, che anzi da solo diventa dannoso, se non si mettono in campo politiche serie che intercettino le cause profonde di devianza, criminalità, disagio. Politiche di welfare e prevenzione che sarebbero degne di uno Stato che si fa definire sociale.
Come abbiamo affermato in più occasioni, una sanzione penale priva di un percorso culturale e educativo non è altro che punizione, non utile né per il condannato né per la società. Eppure, come è accaduto per i recenti fatti di Caivano o per il decreto anti-rave, la repressione sembra essere l’unico strumento conosciuto e sperimentato dalla nostra classe politica.
Questa riflessione può avere uno spettro ben più ampio se collegata alla funzione della pena non tanto per come essa è configurata nel nostro ordinamento – uno dei più garantisti per la Costituzione – bensì per l’applicazione concreta che ha e che finisce per non avere nessun altro fine se non quello di azzerare, ridurre a larve nell’oscurità, come ci ricorda Capossela.
Minorità, azzerarsi, ridursi a pipì e pupù
Minorità, regredire, non crescere più
Minorità, crepare di irrealtà
…non saprò che fare della libertà e ancora verrò a bussare al riparo della vostra minorità
A che servirà una pena che non sa cambiare, ma solo consumare
Che senza riabilitare è solo pena corporale…
Il carcere diventa così mero contenitore di tutto ciò che la società non vuole vedere, illudendosi che la segregazione e l’alienazione che esso comporta possano avere qualche beneficio per la collettività. Non solo chi è detenuto viene sottoposto a violazioni dei diritti che vanno ben oltre la mera privazione della libertà, ma viene espunto totalmente dalla società, contraddicendo il fine primario della pena stessa. A ciò si aggiunge il vergognoso processo di infantilizzazione dei detenuti, la noncuranza della salute mentale, la regressione della propria persona, che difficilmente avrà gli strumenti, una volta scontata la pena, per reintrodursi in società, rimanendo così intrappolata nel circuito criminale, l’unico di fatto che conosce.
Lo stesso Ministro della Giustizia Nordio, che tante parole aveva speso all’inizio del suo mandato in favore di una pena che fosse umana e rieducativa, sembra aver dimenticato le proprie promesse, avallando le scelte di un governo che non conosce altro che repressione, in carceri che oramai stanno raggiungendo i livelli di sovraffollamento che costarono all’Italia, nel 2013, la condanna dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Mentre tutti si voltano dall’altra parte, c’è qualcuno che grida aiuto.