Immaginate una prigione verticale formata da centinaia di livelli. Su ognuno di questi c’è una stanza con due persone e una grossa apertura al centro. Ogni giorno, tramite quel varco, vi accede una piattaforma piena di qualsiasi ben di Dio da mangiare e i detenuti hanno due minuti per cibarsi di ciò che vogliono. Poi la piattaforma passa ai piani inferiori. Va da sé che coloro che si trovano al livello 200, per esempio, riceveranno ben poco cibo o magari nulla. Alla fine di ogni mese, però, i reclusi vengono addormentati e assegnati, secondo criteri casuali, a un nuovo livello, più alto oppure più basso. Questa la semplice e geniale idea alla base de Il buco – in lingua inglese The platform –, film d’esordio di Galder Gaztelu-Urrutia, autore spagnolo che si cimenta con un’opera di fantascienza distopica distribuita proprio in questi giorni su Netflix. La pellicola ha riscosso un certo successo al Torino Film Festival 2019 dove ha vinto il Premio Holden, nonché altri riconoscimenti a Toronto e il Premio Goya per gli effetti speciali in Spagna.
Il complesso penitenziario, soprannominato anche la Fossa, viene eufemisticamente denominato, dall’Amministrazione che ne detiene il controllo, Centro Verticale di Autogestione. Riguardo il cibo va detto anche altro: se coloro che si trovano ai livelli superiori, dove arriva l’abbondanza, razionassero le pietanze e ne consumassero il minimo necessario per sopravvivere, le risorse alimentari basterebbero per tutti, anche per quelli dei piani sottostanti. Ovviamente, così non è perché i primi si fanno prendere dall’ingordigia e razzolano quanto più possibile, disprezzando e dileggiando gli inferiori, dimentichi di quando anche loro si sono trovati, per sorte, ai livelli più bassi. Purtroppo, per sopravvivere oltre il duecentesimo, il film non fa mistero riguardo il ricorso al cannibalismo. Infine, ricordiamo che non è possibile conservare neanche una mollica di cibo in quanto scatta subito un meccanismo automatico che bollirebbe o congelerebbe i trasgressori della regola.
A farci da Virgilio in questo vero e proprio girone dantesco è Goreng – interpretato da Iván Massagué –, personaggio idealista che cercherà di mantenere la propria umanità ed empatia nell’orrore in cui è immerso. Uomo sensibile, diverso dagli altri abitanti della Fossa, si è scelto come unico oggetto consentito da portare il romanzo di Cervantes Don Chisciotte. Nel corso delle sue peripezie tra livelli inferiori e superiori si troverà ad avere a che fare con tre compagni di sventura: un vecchio mefistofelico che per primo gli spiega le regole per non morire in un simile contesto, una donna con un cane che vuole convincere le persone del livello successivo a razionare il cibo e, infine, un uomo che vuole ascendere a tutti i costi ai piani superiori. Se da un lato il nostro Goreng, per sopravvivere, sarà costretto a commettere le azioni peggiori e quindi a perdere in parte quell’aura di idealismo che lo contraddistingueva, dall’altro egli non rinuncia al piano di scardinare il sistema dall’interno, magari partendo proprio dall’alto.
La metafora de Il buco come rappresentazione della condizione umana è fin troppo chiara: gli abitanti dei livelli superiori sono dunque le classi agiate che sperperano e consumano risorse a scapito della classi povere alle quali restano solo le briciole e scannarsi l’una con l’altra. Tale metafora sociale vale ovviamente sia all’interno delle società occidentali che, a livello globale, come immagine dello sfruttamento dei Paesi occidentali verso il terzo mondo.
Il viaggio infernale di Goreng, però, si connoterà anche di valenze messianiche: se consideriamo i livelli superiori come il Paradiso, o semplicemente come uno stato di coscienza più elevato, egli, scegliendo volontariamente di discendere ai livelli inferiori – non diciamo come o perché – affronterà dunque un percorso di purificazione e redenzione che potrebbe portare un messaggio di speranza a tutti gli abitanti della Fossa nonché ai piani alti, ovvero alla cosiddetta Amministrazione che ha creato e gestisce il CVA per ragioni oscure.
Il riferimento cinematografico che salta subito all’occhio è quel piccolo gioiellino di The Cube che nel 1999 vedeva un gruppetto sparuto di persone tentare di sopravvivere all’interno di un complesso tecnologicamente avanzato formato da una serie apparentemente infinita di stanze cubiche, alcune delle quali irte di trappole. Le scenografie e i costumi, come ne Il buco, erano assolutamente minimalisti e anche qui vigeva la regola dell’homo homini lupus. La verticalità della Fossa ricorda inoltre, per contrapposizione, l’orizzontalità del treno di Snowpiercer (2013), altro film distopico, di Bong Joon Ho, nel quale le classi sociali occupavano differenti vagoni di un convoglio che attraversava ripetutamente un mondo ormai ghiacciato. La classi più povere si trovavano nelle carrozze di coda mentre i privilegiati occupavano gli scomparti più avanzati.
Infine, non si può non pensare a quel Parasite, sempre di Bong Joon Ho, che quest’anno ha sbancato agli Oscar e che rappresenta anch’esso un’agghiacciante e grottesca metafora della lotta di classe. Lo fa, però, con un’arguzia e una capacità drammaturgica di livello sopraffino. Il buco, invece, va oltre solo per toni e per eccessi – alcune scene sono molto disturbanti per cui si consiglia la visione solo a stomaci forti –, inoltrandosi in una metafora che, per quanto è semplice e geniale nell’assunto di base, nel corso del film rischia di diventare scontata e ripetitiva.
Non è un caso che questa opera prima di Gaztelu-Urrutia stia riscuotendo grosso successo su Netflix – il cui tempismo nel distribuirla è quasi diabolico e probabilmente non casuale –, proprio ora che ci troviamo tutti in una condizione di reclusione nella quale il reperimento del cibo sembra essere diventata la nostra sola occupazione e preoccupazione al di fuori delle mura di casa. Tutto il resto è stato azzerato, così come per i detenuti della Fossa.
Ne Il buco, i bisogni dell’uomo sono ridotti al cosiddetto essenziale, eludendo la cultura, il pensiero o l’empatia verso il prossimo. Cose che al momento possiamo continuare a coltivare solo tra le mura domestiche oppure a distanza, tramite le tecnologie digitali. Ecco, dunque, che il film diventa casualmente – o non casualmente – metafora del drammatico momento collettivo che tutti ci troviamo ad affrontare. Eppure Goreng ha scelto di portarsi dietro, come unico oggetto in quell’inferno, un libro, quel Don Chisciotte che lottava contro i mulini a vento e che, cavallerescamente, si sacrificava per il bene comune. Magari un filo di speranza c’è, per lui e per noi.