Il Presidente del Consiglio Mario Draghi ha scelto come meta della sua prima visita di Stato la Libia. Non si tratta di una scelta casuale, bensì della dimostrazione – ammesso ce ne sia ancora bisogno – dell’importanza che il nostro Paese attribuisce ai rapporti economici e politici con lo Stato nordafricano attualmente retto da un governo di transizione, nato pochi mesi fa in seguito all’intervento dell’ONU e lunghi negoziati, il cui Primo Ministro ad interim è Abdul Hamid Dbeibah.
Si tratta della prima volta, dal 2015, che i libici hanno un governo di unità nazionale che dovrà guidare il Paese fino alle elezioni previste per il prossimo 24 dicembre. Finora, infatti, esso è stato retto da due governi rivali, uno con sede a Tripoli, sostenuto dalla comunità internazionale, l’altro con sede a Tobruk, a est, e guidato da Khalifa Haftar, autoproclamatasi comandante dell’esercito nazionale libico. In questi anni, il popolo è stato in balia di gruppi armati e milizie. Tuttora, l’equilibrio è precario e potrebbero riaccendersi i dissidi tra le fazioni rivali. Il ruolo della comunità internazionale, dunque, dovrebbe essere proprio quello di agevolare il processo di pace in corso.
Dopo l’incontro, Mario Draghi ha dichiarato che la sua intenzione è quella di ricostruire l’antica amicizia e vicinanza tra i Paesi, approfittando della riconciliazione nazionale che sta avvenendo. La visita e le dichiarazioni del Premier hanno come obiettivo prioritario quello di riaffermare la propria influenza in Libia, sgomitando con Turchia e Russia. E quale modo migliore se non finanziamenti economici e la riapertura dell’aeroporto di Tripoli per favorire gli scambi commerciali? A dimostrazione di ciò, la venuta del Presidente del Consiglio è stata preceduta da quella dei dirigenti del Consorzio AENAS e dell’Agenzia italiana per il servizio aereo.
A destare perplessità, tuttavia, sono state le dichiarazioni riguardanti la guardia costiera. Questa, infatti, è stata ringraziata per il lavoro portato avanti in tema di salvataggi e gestione dei flussi migratori. Parole piatte, ferme, di chi pensa che si possa parlare di salvataggi per definire la condizione disumana di coloro che cercano di arrivare in Europa, vengono catturati dalle stesse milizie che guadagnano con il traffico di esseri umani e poi torturati e abusati nei centri di detenzione. Come se si potesse usare una parola come gestione per indicare violenze e soprusi, accompagnati da speronamenti e attacchi armati alle ONG che cercano di salvare vite. Attualmente, nei centri di detenzione ufficiali sono detenuti 4mila migranti, senza considerare quelli non ufficiali che sfuggono a qualsiasi forma di controllo.
Nonostante ciò sia stato ampiamente dimostrato da inchieste nazionali e internazionali, oltre che da indagini delle Nazioni Unite, tra poche settimane si voterà per il rinnovo dei finanziamenti alla Libia e, dati i presupposti, non abbiamo alcun motivo per dubitare che la risoluzione non incontrerà grossi intoppi. Esattamente come avvenuto nel luglio scorso, quando con una larghissima maggioranza – 401 voti favorevoli – i fondi per l’addestramento della guardia costiera libica sono stati rinnovati. Si tratta di un corpo militare nato nel 2017 e finanziato dall’Italia e dall’Unione Europea per intercettare le imbarcazioni di migranti sulla rotta del Mediterraneo Centrale e riportarle indietro, in un Paese che non riconosce la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 e in cui sono state accertate sistematiche violazioni del diritto. Quelle a cui l’Italia contribuisce pur di ottenere un rallentamento degli sbarchi sul proprio territorio. Basti pensare che solo nei primi due mesi del 2021, 4029 persone sono state intercettate e ricondotte in detenzione in Libia, senza considerare centinaia di dispersi e corpi restituiti dal mare.
I fondi spesi a tal fine sono aumentati di anno in anno, raggiungendo quasi 800 milioni complessivi, di cui più di un quarto è stato speso specificamente per missioni militari. L’obiettivo non è solo quello di fermare i migranti, ma anche di rafforzare l’influenza italiana in Libia, incrinatasi a partire dal 2011. Il Parlamento, intanto, non chiede una rendicontazione precisa del modo in cui i fondi vengono utilizzati e la mancanza di trasparenza ha comportato l’arricchimento di trafficanti e milizie che determinano la stessa instabilità del Paese. La mancanza di controlli, inoltre, significa non chiedersi quale sia l’impatto sui diritti umani.
Nel luglio scorso, Salvatore Fachile dell’ASGI (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) ha dichiarato che si sarebbe potuta configurare una responsabilità giuridica dell’Italia rispetto alle violazioni perpetrate all’interno dei centri di detenzione. A tal proposito, nel corso di una conferenza svolta qualche giorno fa, Mario Draghi ha ammesso di comprendere le critiche per aver ringraziato la guardia costiera libica, di essere preoccupato per i diritti umani e orientato a superare il sistema dei centri di detenzione. Ha precisato, infatti, che con la Libia è necessaria la stessa franchezza con cui ha definito il Presidente turco Erdoğan un dittatore, tuttavia ci sono aree in cui è necessaria una cooperazione e tra queste c’è l’immigrazione.
Un governo che cerca di affrontare questo problema lo deve fare con un approccio umano, equilibrato ed efficace: queste sono state le parole del Presidente del Consiglio, eppure ci riesce difficile pensare a un approccio umano se la gestione è affidata alla guardia costiera libica. Quello dell’immigrazione, infatti, non è un problema di per sé: si tratta di un fenomeno che si trasforma in un problema a causa della sua gestione scellerata.
Nuovamente, si dà priorità alle relazioni economiche e commerciali, approfittando del momento di stasi dal punto di vista militare. L’intenzione delle potenze europee, e non solo, in visita in questi giorni in Libia è spartirsi l’influenza territoriale, come se si trattasse tuttora di una colonia. Restano sullo sfondo milioni di persone che hanno bisogno di assistenza umanitaria a seguito della guerra, le centinaia di migliaia di sfollati e tutti coloro che hanno tentato di offrirsi una seconda opportunità gettandosi nel Mar Mediterraneo.
Parlare di franchezza e fingere di avere il coraggio di manifestare diversità di opinioni e vedute ha poco senso se concretamente i regimi dittatoriali vengono avallati attraverso finanziamenti pubblici, relazioni economiche e politiche. Un Paese realmente democratico non ha bisogno di dittatori per sopravvivere, né di delegare loro la gestione di migliaia di vite umane, fingendo di non sapere quali violazioni dei diritti sta mantenendo in piedi.