Il valore spirituale di ogni Resistenza dal Sesto Quaderno
Si può definire Gramsci il primo partigiano? È una domanda alla quale, nella mia inconsistenza culturale, non so rispondere. Però, ed è una fitta rete di parole che accompagna la lettura dei Quaderni, il valore spirituale della Resistenza è presente in ogni suo pensiero.
A un teologo domenicano che gli chiede come si debba intendere il verbo di Ezechia, “se non manifesterete all’empio la sua iniquità, io chiederò conto a voi della sua anima”, così risponde Francesco: “Il servo di Dio deve comportarsi nella sua vita e nel suo amore alla virtù così che con la luce del buon esempio e l’unzione della parola riesca di rimprovero a tutti gli empi; e così avverrà, credo, che lo splendore della vita di lui e l’odore della sua buona fama annunzieranno ai tristi la loro iniquità”.
La prigione, la sua sofferenza fisica che diventa sempre più penetrante, la fragilità del prigioniero che fa breccia nella sua solidità politica: a cosa serve la sua Resistenza contro la brutalità fascista?
[…] la non resistenza e non cooperazione sostenuta da Ghandi: esse possono far capire le origini del cristianesimo e le ragioni del suo sviluppo nell’impero romano […] rivive in tutta l’India una forma di cristianesimo primitivo, che il mondo cattolico e protestante non riesce neppure ad immaginare.
È l’individuo che attraverso il suo dolore si ricollega d’amore alle masse, come se le guidasse senza bisogno di parole, di gesti, di azioni. Si tratta di una misteriosa forza etica che diventa spiritualità attraverso l’esempio. In questo senso, e a rischio di fare la figura del fesso, Gramsci non solo diventa il primo partigiano italiano, ma guida etica, silenziosa, dei Partiti del Lavoro di mezzo mondo. La speranza che in questi tempi bui si riaffaccia con prepotenza in molti Paesi dell’America Latina trae spunto, origine, consistenza intellettuale dalle parole del prigioniero Gramsci.
Il rapporto tra gandhismo e impero inglese è simile a quello tra cristianesimo-ellenismo e impero romano. Paesi di antica civiltà, disarmati e tecnicamente (militarmente) inferiori, dominati da paesi tecnicamente sviluppati (i Romani avevano sviluppato la tecnica governativa e militare) sebbene come numero di abitanti trascurabile.
Le premesse per ogni tipo di rivoluzione risiedono, quindi, nella diffusione di una nuova cultura e tale diffusione avviene per “contaminazione”: reti, piccole comunità, mutuo aiuto basato non sempre e non solo su ideologie, ma su quella “massa umana”, quel riconoscersi simili che è nel pensiero gramsciano un anelito continuo alla spiritualità.
La coscienza dell’impotenza materiale di una gran massa contro pochi oppressori porta all’esaltazione dei valori puramente spirituali ecc., alla passività, alla non resistenza, alla cooperazione, che però è di fatto una resistenza diluita e penosa, il materasso contro la pallottola.
Il gandhismo visto quindi come “credenza popolare” che permea lentamente il territorio fino a rendere possibile una Resistenza che da individuale passa a collettiva.
Anche i movimenti religiosi popolari del Medioevo, francescanesimo, ecc., rientrano in uno stesso rapporto di impotenza politica delle grandi masse di fronte ad oppressori poco numerosi ma agguerriti e centralizzati: gli umiliati e offesi si trincerano nel pacifismo evangelico primitivo, nella nuda esposizione della loro natura umana misconosciuta e calpestata nonostante le affermazioni di fraternità in dio padre e di uguaglianza.
Analisi politica e tensione umana fanno a pugni in quest’ultima affermazione. Si percepisce una spasmodica tensione spirituale, ma si legge invece il suo contrario. Apparente contraddizione che non toglie lucidità alle parole gramsciane, anzi, ci aggiunge un peso umano sconvolgente, un sangue vivo, una fragilità condivisibile che le rende attualissime e intime a ciascuno di noi. Spiritualità come, in ultima analisi, aspirazione irrazionale di un vivere possibile. Quasi un fondere carne e spirito, in una materialità giusta.
Contributo a cura di Luca Musella