Il militante dal Quarto Quaderno
Che tutti i membri di un partito politico debbano essere considerati come intellettuali: ecco una affermazione che può prestarsi allo scherzo; pure, se si riflette, niente di più esatto.
Una militanza che è educativa e direttiva, cioè intellettuale. Un commerciante, un operaio, un industriale e un contadino non entrano in un partito per migliorare le loro competenze professionali. Entrano in un partito per diventare: elementi di un gruppo sociale economico superano questo momento del loro sviluppo storico e diventano agenti di attività generali, di carattere nazionale e internazionale.
Chiaramente la creazione di reti sociali può e, in una certa misura deve, consentire al militante di accrescere la sua autostima. La nascita di “quadri” politici disinteressati e preparati è antitesi naturale al fenomeno endemico del trasformismo perché, in parole semplici, rende tutti sostituibili. La pressione del potere, il suo subdolo fascino, può colpire chiunque da un momento all’altro ma, in una chiave di forte identificazione politica e relazionale, ogni tradimento, oltre a essere dolorosissimo per chi lo effettua perché recide legami imprescindibili, non arreca danno al partito.
Troppo spesso, nella concezione politica italiana, gli intellettuali diventano quadri di partito senza esserne organici, ma autoreferenziali e in una vocazione di tipo clericale: investitura e non rappresentanza. Le anomalie, poi, di interi settori produttivi e assistenziali appaltati con logiche clientelari, aumentano la distanza tra una militanza di identità e una d’interesse. Ma, in una lettura positiva dell’agire, Gramsci individua anticorpi validi a questo marciume: l’egemonia culturale del militante.
Attraverso la discussione e la critica collegiale (fatta di suggerimenti, di consigli, di indicazioni metodiche, critica costruttiva e rivolta alla educazione reciproca) si innalzerebbe il livello dei membri del circolo, fino a raggiungere l’altezza e la capacità del più preparato.
Prendiamo ad esempio tre Luigi. De Magistris: potenziale leader di una nuova proposta politica di sinistra. Di Maio: Ministro degli Esteri dei migliori. Gelli: impiegato pubblico e militante di sinistra. Costruiamo, seguendo il teorema gramsciano, un triangolo di relazioni politiche. Di Maio è espressione di una base autentica ma spappolata dove, in virtù di un’assenza gravitazionale intellettuale, ogni acrobazia politica diventa possibile: da amico di Putin a nemico, da leghista a piddino. De Magistris, a sua volta, essendo espressione di movimenti diversi, alcuni dei quali privi di identità politica, ha subito un decennio di “abbandoni”: quadri, attratti dalla potenziale velocità di carriera, lo hanno utilizzato per accrescere visibilità e poi abbandonato per migliori offerenti. Così, in chiave gramsciana, una sinistra vera riparte dall’anonimo Luigi Gelli che, da puro e disinteressato militante ha accresciuto la sua competenza, identità e rete sociale. Una sinistra che riparte da Luigi Gelli può, se crede, avere in Luigi de Magistris un leader, ma in un rapporto di corrispondenze intellettuali assolute, intimissime.
I tre Luigi, in modo diverso, rappresentano forze dal basso ma, mentre in Di Maio il basso è rimasto intrappolato nell’assenza di visione organica del mondo e di cultura politica, quindi un basso senza evoluzione, in De Magistris questo processo di identificazione con la base, con il basso, è totale e circolare, sebbene ancora da sviluppare in chiave identitaria. La formazione del militante diventa centrale nell’azione politica: una trasmissione di saperi che assume i contorni di una spiritualità, oltre che di un’appartenenza. Dove ci si aiuta e ci si aspetta in una chiave di comunità e dove, anche senza vincere le elezioni, si incide nella vita del Paese come cellule di Resistenza e intelligenza.
Si potrebbe introdurre un principio fecondo di lavoro: ogni membro del circolo incaricato di un lavoro potrebbe scegliere tra gli altri un consigliere guida che lo indirizzi […], cioè che non si sostituisca a lui ma solo lo aiuti a lavorare e a sviluppare in sé una disciplina di lavoro, un metodo di produzione.
La figura del militante supera così quella del “gorilla ammaestrato”, propria dello sviluppo industriale e del torpore della società consumista. L’idea del basso, dell’orizzontalità dei rapporti, funziona fino a quando non esiste un gap culturale tra rappresentato e rappresentante. I militanti devono, se vogliono incidere nel Paese, costruirsi una lingua comune ed essere capaci di trasmetterla ad altri. Essere una sinistra, secondo Gramsci, è costruire la realtà: raccontarla, conoscerla, codificarla. Non creare caste di mediatori, tipo clero, di bisogni personali e/o modelli sociali da imitare per migliorare la propria condizione.
Siccome queste categorie sentono con spirito di corpo la continuità della loro qualifica intellettuale (Croce si sente come legato ad Aristotele più che ad Agnelli, ecc.) così appare una certa loro autonomia dal gruppo sociale dominante e il loro complesso può apparire come un gruppo sociale indipendente con propri caratteri, ecc.
Contributo a cura di Luca Musella