La trasformazione sociale ed economica, che si attuò in seno alla borghesia nel XIX secolo, portò a un cambiamento di orizzonti e punti di vista. L’uomo cominciò a farsi un’idea diversa della natura e dei rapporti che questa aveva con l’industria, con la tecnica e con le scienze. Si fece strada una nuova concezione della realtà con conseguenze anche in campo artistico, indirizzandolo verso quell’obiettività che era carattere proprio della fotografia.
Il XIX secolo trovò la sua espressione migliore nel Positivismo. L’affermazione di Taine, “Voglio riprodurre le cose come sono o come sarebbero, anche se io non esistessi”, diventò il leitmotiv di una nuova estetica. Già verso la metà del secolo si discusse pubblicamente di una nuova tendenza artistica il cui nome era Realismo. Mentre la fotografia celebrava il suo trionfo all’esposizione mondiale del 1855, dove era possibile ammirare copie così precise della natura, la pittura dei primi realisti veniva boicottata da quello stesso pubblico, nonostante alla base dell’una e dell’altra vi fossero tendenze identiche.
Le esigenze di questa nuova corrente sembrarono derivare proprio dalla comparsa dell’apparecchio fotografico: “Si può dipingere soltanto quello che si vede”. Per il fotografo la realtà della natura fu la realtà ottica dell’immagine, il suo solo campo fu il mondo visibile. Il fotografo, dunque, fu legato a una realtà ben definita, dove la fantasia dovette essere completamente bandita dal momento che la lastra non poteva restituirgli altro oltre quanto riportava l’immagine stessa.
Questa tecnica rivelò un mondo che, fino ad allora, era rimasto inosservato. Tuttavia, i realisti si rifiutarono di considerare la fotografia come Arte. Lo scrittore Chempfleury, in un articolo uscito sulla Revue de Paris, dichiarò: “Quello che io vedo entra nella mia testa, scende nella mia penna, diventa quello che ho visto… Poiché l’uomo non è una macchina, non può prendere gli oggetti macchinalmente. Il Romanziere sceglie, raggruppa, distribuisce; il dagherrotipista fatica altrettanto?”
Il giudizio sulla nuova tecnica da parte degli artisti del tempo fu, però, spesso contraddittorio. Il poeta Alphonse Marie Louis de Lamartine nel 1858 condannò la fotografia, “quell’invenzione del caso non sarà mai un’arte, ma un plagio della natura da parte dell’ottica”, per poi cambiare opinione dopo aver visto le belle immagini di Adam Salomon, il quale iniziò la sua carriera come scultore: “La fotografia, contro la quale ho lanciato un anatema, sospinto dal ciarlatanesimo che la disonora moltiplicando le copie, la fotografia è il fotografo. Da quando abbiamo ammirato i meravigliosi ritratti presi nello splendore del sole da Adam Salomon, non diciamo più che è un mestiere: è un’arte. È più di un’arte, è il fenomeno solare dove l’artista collabora con il sole.”
Per l’accademico Jean-Auguste-Dominique Ingres, quest’arte era odiosa, rappresentando ai suoi occhi una manifestazione dell’evoluzione in corso: “Ora vogliono mescolare l’industria all’arte. L’industria! Noi non vogliamo saperne! Rimanga al suo posto e non venga a insediarsi sui gradini della nostra scuola di Apollo, consacrata soltanto alle arti della Grecia e di Roma.”
Apparve, invece, a Eugène Delacroix come un preziosissimo elemento ausiliare che avrebbe potuto completare l’insegnamento del disegno. Il pittore considerò il dagherrotipo come un traduttore capace di farci penetrare più profondamente nei misteri della natura. Anche se, nonostante lo stupefacente effetto, la fotografia non era altro che un riflesso della realtà, una copia.
Il pittore francese, recensendo il libro di Madame Cavé, Le Dessin sans maître, riportò un’osservazione secondo la quale nella pittura è lo spirito che parla allo spirito, e non la scienza che parla alla scienza. Egli respinse la fotografia come opera d’arte: dal suo punto di vista l’essenziale non era la somiglianza, bensì lo spirito. “Esaminiamo i ritratti fatti con il dagherrotipo: su cento, non ce n’è uno sopportabile, giacché, concludeva, ciò che più ci colpisce e ci incanta non è la regolarità dei tratti, ma la fisionomia che cogliamo alla prima occhiata, e che mai coglierà un apparecchio meccanico.”
Al contempo, completamente antitetico fu il pensiero dei naturalisti francesi e dei veristi italiani. Uno straordinario testimone fu Émile Zola, un poligrafo, instancabile lavoratore, creatore prolisso, impegnato nei dibattiti del suo tempo, quando il capitalismo mostrava già il volto oscuro. Una delle sue passioni più durature fu proprio la fotografia, alla quale fu iniziato fin dal 1888 dal giornalista Victor Billaud. Scattò circa 6000 istantanee, da semplici foto ricordo a paesaggi naturali o urbani, ma anche ritratti originali e riproduzioni di immagini che appaiono come dei veri e propri quadri. Zola si fece pittore: catturò scene viste, ma soprattutto documentò e conservò ogni cosa.
Sostenne che fosse necessario, per il romanzo, ricostruire fedelmente gli ambienti, riportare con scrupolo gli elementi topografici e geografici degli scenari in cui veniva ambientato un racconto ma, allo stesso tempo, far scomparire l’autore dalla scena, ottenendo così la massima oggettività rappresentativa. Questo genere venne, quindi, concepito come una fotografia. Nel suo scritto teorico Il romanzo sperimentale, Zola scrisse, infatti, di una rappresentazione fotografica come compito proprio dell’autore.
Per preparare i suoi romanzi, Zola si documentò minuziosamente e, armato di macchina fotografica, perlustrò e raccolse immagini e informazioni di ogni genere sui luoghi che avrebbero costituito lo scenario delle sue storie: da Les Halles a Passy, dai grandi magazzini alla stazione di Le Havre, al campo di battaglia di Sedan e così via. Dalle immagini fotografiche di questo artista fu possibile scorgere una Parigi dell’Ottocento in cui erano mescolate differenti società complementari ma, spesso, antagoniste: i quartieri residenziali, la Borsa, i grandi magazzini, i luoghi frequentati dalle cocottes, le miniere, i quartieri popolari. Zola fu un artista infaticabile e con la sua macchina fotografica svolse un vero e proprio “lavoro sul campo”: intervistò i banchieri, i commessi, i ferrovieri, si documentò, fece schizzi e fotografie di palazzi dell’alta borghesia in cui ambientò, poi, Pot-Bouille e La Curée, studiò nei minimi dettagli Les Halles, l’enorme mercato che divenne Il ventre di Parigi. Quello che venne fuori fu un potente affresco della società francese della fine del XIX secolo.
Un altro poeta che si oppose al rifiuto di Baudelaire fu Arthur Rimbaud. Anche il Leipziger Stadtanzeiger credette di doversi contrapporre tempestivamente all’arte diabolica di origine francese: “Voler fissare immagini effimere è non soltanto un’impresa impossibile, come è risultato da un’approfondita analisi tedesca, ma, anzi, lo stesso desiderio di volerlo fare è un’offesa a Dio. L’uomo è fatto a immagine di Dio, questa non può venir fissata da nessuna macchina umana. Al massimo il divino artista, animato da una celeste ispirazione, può tentare di restituire i tratti umano-divini nell’attimo della sua massima devozione, obbedendo all’alto comando del suo genio, senza l’aiuto di macchina alcuna.”
A contestare gli attacchi di Baudelaire, invece, nel 1855, il rozzo pittore di idee Antoine Wiertz accolse la fotografia: “Qualche anno fa ci è stata elargita la gloria della nostra epoca, una macchina che costituisce ogni giorno lo stupore dei nostri pensieri e il terrore dei nostri occhi. Prima che sia passato un secolo questa macchina sarà il pennello, la tavolozza, i colori, l’abilità, l’esperienza, la pazienza, la lestezza, la pregnanza, la tinteggiatura, la velatura, il modello, il compimento, l’estratto della pittura […] Non si creda che la dagherrotipia uccida l’arte […] quando la dagherrotipia, questa figlia di giganti, sarà cresciuta, quando tutta la sua arte e la sua forza si saranno sviluppate, allora il genio l’afferrerà per la nuca, con la mano, e griderà forte: Vieni qui! Tu ora mi appartieni! Lavoreremo insieme.”
Negli anni successivi all’unità nazionale fino al primo decennio del Novecento, in Italia si affermò il Verismo, un movimento artistico e letterario che si ispirò al Naturalismo francese e al Positivismo. La caratteristica principale di tale corrente letteraria fu l’attenzione alla realtà nella dimensione del quotidiano, tesa a descrivere l’ambiente e le forme sociali con metodo scientifico, omettendo qualsiasi emozione o riflessione personale. I veristi rimasero straordinariamente colpiti dall’arte fotografica: raccontarono la realtà del mondo, le sue difficoltà, la durezza della vita degli uomini, la loro battaglia per la sopravvivenza.
Oltre a Zola e Jack London, vi furono molti altri intellettuali che usarono quest’arte al fine di “vedere”. Un primo esempio fu August Strindberg. Fotografò moltissimo, sia primi piani che profili, ritratti dalle ginocchia in su, ma anche figure intere. Era in grado di sviluppare e fissare, dare i toni e riprodurre le sue immagini.
In Italia, anche se soltanto nel 1970, fu portato alla luce il lavoro fotografico della “triade di Catania”. La città siciliana fu l’avanguardia della cultura del secondo Ottocento in Sicilia e Luigi Capuana, Giovanni Verga e Federico De Roberto furono i massimi esponenti del Verismo siciliano.
Giovanni Verga diede vita con il suo obiettivo a trecento o quattrocento immagini della sua città, ritraendo contadini, campieri, amici del sud e del nord, donne di casa, bambini e ragazzine, servi e padroni. Mise così insieme le foto dei personaggi che intanto affollavano i suoi libri. Questa passione si riversò irrimediabilmente nei suoi manoscritti. Mentre si preparava a scrivere, infatti, contemporaneamente scendeva in strada o andava per i campi e per le cittadine a fare qualche scatto.
Fu condizionato da questa passione per l’immagine a tal punto che finì per scrivere racconti e romanzi senza l’ausilio dei colori, in “bianco e nero”. Il maestro di fotografia di Verga fu Luigi Capuana, già caposcuola del Verismo. Questi aveva addirittura ripreso la madre in fin di vita e poi, ancora, dopo la morte, rivestita in un bellissimo costume siciliano. Ai due si aggregò anche Federico De Roberto, che aveva dato alle stampe un bel libro sulla Valle dell’Alcantara, con istantanee da lui scattate.
Verga, invece, più che affascinato dalla perfezione dell’immagine, preferì cogliere l’istante, fermare la vita nel suo movimento e, nella rigidezza fotografica, mantenere l’effetto di quel moto, pronto ad accogliere gli imprevisti delle riprese, gli errori, incarnando l’ideale realistico di un Louis Lumière. Anche se con una tecnica imperfetta, dove molte erano le sfocature, le alonature, le inquadrature sbilanciate, lo scrittore fu, tra i tre, il fotografo più avvincente.
Le sue immagini, anche se tecnicamente inferiori a quelle di Capuana e De Roberto, furono le più intense, quelle più intimamente a contatto con il mondo ripreso. Lo sguardo di Verga fu più espressivo, parlò da sé. Raccolse anche alcune esperienze di lavoro dei fratelli Primoli, scattando a Vizzini e in Sicilia. Ne scaturirono, a volte, stampe cupe, cariche di significati e rapportati perfettamente ai personaggi dei suoi libri. I suoi scatti acquisirono grande importanza, in Italia, perché costituirono la saldatura culturale tra la fotografia e il Verismo, creando così anche un legame preciso con le correnti letterarie socialmente più avanzate in Francia.
La prima fotografia di Verga, in ordine cronologico, consisté in un “autoscatto” del 1878, dove era in compagnia dei suoi parenti più stretti. In questa immagine lo scrittore era ancora “dentro” lo spettacolo della realtà, cioè davanti all’obiettivo. Successivamente avrebbe accettato molto raramente di farsi fotografare o autoriprendersi, preferendo rimanere dietro l’apparecchio, affinché fosse possibile comprendere maggiormente l’atteggiamento di “osservatore esterno” che intendeva trasferire in maniera sempre più decisa nella sua letteratura: “Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori del campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com’è stata, o come avrebbe dovuto essere.”
In cambio, Luigi Capuana ebbe con la fotografia un approccio maggiormente scientifico, fatto di alambicchi e provette, di sviluppo e fissaggio, nonché di sperimentazione fino al paradosso. Celebre fu il suo ritratto a occhi chiusi, quasi fingendosi morto. Probabilmente la lunga permanenza a Firenze contribuì a far nascere nel suo animo questa grande passione. La città toscana, patria degli Alinari e sede della Società Fotografica Italiana, gli permise di imparare i rudimenti di questa nuova tecnica artistica, molto adatta alla ricerca letteraria verista. Nulla meglio di un’immagine avrebbe potuto riprodurre fedelmente la realtà, rispondendo ai dettami di oggettività e impersonalità così tanto perseguiti dagli autori veristi di quegli anni.
io sono un fotografo food di professione, https://www.michelangeloconvertino.it/e ho trovato l’articolo veramente molto interessante e pieno di spunti..complimenti!