Ritorna ciclicamente, come un disco mai esausto incagliato nel suo loop senza fine. Lo sentiamo ripetere periodicamente, da datori di lavoro, imprenditori e anche da qualche esponente delle fasce d’età più anziane. E forse siamo anche troppo stanchi per opporci. I giovani non hanno voglia di lavorare.
Non sanno cosa sia la fatica, non vogliono proprio stancarsi, né sacrificarsi né fare quella tanto discussa gavetta che funge da alibi perfetto per lo sfruttamento. Quando i titoli sulle lamentele dell’imprenditore di turno che non trova personale fioccano, la storia è sempre narrata da un unico punto di vista, e sono molte le sfaccettature che non vengono considerate. Per rimediare a queste polemiche a senso unico, oggi proviamo a portare un punto di vista nuovo alla discussione, il punto di vista di un’esperienza singola e individuale che, per una volta, si dimostra rappresentativa della condizione in cui la maggior parte dei giovani si ritrova.
Qualche anno fa, quando alcuni amici sono stati assunti da una multinazionale che pagava bene ma sfruttava parecchio, ho spesso disapprovato il loro atteggiamento perché mi sembrava che non riuscissero a far rispettare i propri diritti. Dietro quegli straordinari mai pagati, i weekend passati a lavorare e le ferie negate per esigenze di progetto, c’era la mia preoccupazione per la loro salute e per quello che sarebbe stato il loro futuro. Un futuro fatto di un impiego che permette di accedere a una vita serena dal punto di vista economico, ma malsana sotto ogni altro punto di vista perché tutto il tempo e le energie sono risucchiati dal lavoro. Allora ancora non sapevo cosa avrebbe riservato a me il mondo dei grandi e credevo che quel ruolo di api operaie, costrette a fare di tutto per l’azienda, fosse il peggio che potesse capitare. Non sapevo che quella era solo una delle due disgrazie che possono capitare ai giovani che provano a raggiungere la loro indipendenza.
Quando invece mi sono affacciata io sul mercato del lavoro, ho scoperto cosa sono la precarietà e lo sfruttamento. Da persona fin troppo responsabile ed evidentemente ingenua, avevo organizzato la mia vita in modo tale da uscire dall’università prontissima per lavorare: al momento della laurea avevo già accumulato quattro anni di esperienza tra stage e praticantati e avevo ottenuto l’iscrizione all’ordine professionale dei giornalisti. Insomma, avevo già fatto la mia fantomatica gavetta ed ero pronta per un lavoro vero. Che, ovviamente, non ho trovato.
Ho trovato tirocini non pagati – che avevo già fatto –, ho trovato offerte di lavoro che richiedevano esperienza quinquennale ma proponevano compensi da stage e mi sono vista offrire impieghi con orari massacranti e compensi da 3 euro l’ora. Mi sono vista trovare lavori con contratti a collaborazione, privi di garanzie sulla malattia – e in epoca Covid è un gran problema, perché se manchi dieci giorni perdi un terzo dello stipendio – e, ovviamente, completamente privi di contributi. Delle ferie manco a parlarne, ci mancherebbe. Contratti di tre mesi, a volte sei, privi di garanzie per il futuro, fatti di una precarietà tale da impedirmi di fare progetti a lungo termine. E in quel momento ho iniziato a pensare che forse quella vita da api operaie che tanto condannavo non fosse, dopotutto, la cosa peggiore che potesse capitare. Il precariato lo era.
La mia storia non è speciale, e non è diversa da quella di migliaia di giovani italiani nelle mie stesse condizioni. A differenza di quanto vogliano farci credere, il titolo di studio, l’esperienza accumulata, l’entusiasmo e la tenacia non fanno alcuna differenza, non fanno trovare un lavoro quando lì fuori il lavoro non c’è. E tutta quella retorica del se vuoi, puoi pensata per incolpare le vittime del sistema dei fallimenti dello stesso non cambia la condizione in cui io e altre decine di migliaia di giovani ci troviamo. Eppure, nonostante tutto, nonostante i 2, 3 a volte 4 euro all’ora offerti per il nostro tempo e per le nostre energie, nonostante gli impieghi stagionali proposti alle nostre richieste di un po’ di stabilità, ancora ci capita di sentirci dire che i giovani non hanno voglia di lavorare.
La narrazione dominante ci racconta che il mondo ha sempre girato in questo modo e che tale impostazione del lavoro è giusta e normale. Quella del si è sempre fatto così è una giustificazione applicata a numerose negazioni di diritti e che, però, non funziona mai. A guardare i numeri, invece, si scoprono cose molto diverse. Secondo gli ultimi dati, la metà degli under 35 italiani non può permettersi di vivere autonomamente a causa delle condizioni di lavoro incapaci di sostenere il costo della vita. Oltre la metà della popolazione italiana tra i 18 e i 35 anni ha collezionato esperienze di lavoro in nero, tipologie di contratto precari e periodi più o meno lunghi di disoccupazione. L’indagine svolta dal Consiglio nazionale dei giovani chiarisce che la maggior parte dei ragazzi italiani ha vissuto la cosiddetta discontinuità lavorativa, ovvero condizioni di lavoro precarie e mutevoli intervallate da periodi di disoccupazione. E la maggior parte percepisce una retribuzione inferiore ai 10mila euro annui.
Se il 37% dei giovani ha un lavoro stabile, i restanti sono disoccupati o occupati con lavoro precario. La precarietà, che ha tanto a che fare sia con l’inadeguatezza dei compensi che con la provvisorietà dei contratti, è forse uno dei problemi più grandi del nostro Paese. È a causa della precarietà che i giovani non possono permettersi di vivere, di lasciare casa dei genitori e, sì, anche mettere su famiglia. I figli della generazione del posto fisso non hanno la possibilità, al giorno d’oggi, di vivere in una condizione economica stabile, che prescinde dalla loro volontà. Questa condizione è la causa principale del sempre maggiore calo delle nascite che provoca quell’instabilità che non consente all’economia di crescere e al Paese di non invecchiare. Nel corso degli ultimi dieci anni, i giovani sono diminuiti di oltre un milione, a dimostrazione del fatto che non esiste ricambio generazionale.
Confrontando i dati sull’occupazione giovanile con quelli del resto d’Europa, l’Italia è al terzultimo posto e si conferma tra i peggiori luoghi per la crescita economica e professionale. Inoltre, la maggior parte dei giovani occupati – 8 su 10 – si vede offerti contratti part-time e, dunque, con minore stabilità economica e possibilità di fare progetti a lungo termine come comprare una casa o fare dei figli, o anche solo potersi permettere un contratto d’affitto per lasciare l’appartamento dei genitori. Le politiche, intanto, provano a mettere una toppa offrendo incentivi ai giovani che vogliono comprare casa o bonus per i neo genitori, come se qualche centinaia di euro potesse risolvere un problema invece strutturale.
Anche a livello di retribuzione, gli under 30 guadagnano, in media, 45 euro in meno degli over 54, sebbene il loro livello d’istruzione sia maggiore. In più, secondo un rapporto Censis, la situazione peggiora – ovviamente – per le donne, la cui retribuzione è inferiore del 18% rispetto alla media. A questa situazione tutt’altro che rosea, si aggiunge il terribile massacro dei tirocini. È ormai risaputo che l’unico modo per i giovani di avere accesso al mondo dell’impiego è attraverso i tirocini, periodi di lavoro – e quasi mai di reale formazione come invece dovrebbero – sottopagati o addirittura non pagati. A questi sei mesi di sfruttamento per i quali ogni giovane passa, raramente segue un’assunzione. Solo il 25% dei tirocini si trasforma in un contratto di lavoro. Nella maggior parte dei casi, invece, si sostituiscono tirocinanti con nuovi tirocinanti pur di avere manodopera a basso costo.
Inoltre, anche le condizioni di lavoro – quando il lavoro c’è – sono tra le peggiori di sempre. Secondo una ricerca di Bain & Company, gli under 35 italiani sono i giovani più stressati – a livello lavorativo – d’Europa, e tra i più stressati del mondo, insieme a quelli brasiliani e giapponesi. Queste condizioni dipendono dalla tossica e dannosa cultura del superlavoro: non solo quella secondo cui si vive per lavorare, ma anche secondo cui dare il massimo significa fare ore di straordinario non pagate, non avere vita privata o riposo e dedicare tutto se stesso completamente ed esclusivamente al lavoro. La richiesta di reperibilità continua, gli orari non rispettati e le culture aziendali tossiche sono la normalità all’interno del panorama lavorativo italiano, tutte condizioni che in cambio non offrono reale possibilità di crescita professionale né personale per i giovani.
Il quadro appena descritto è quello in cui, a oggi, cercano di barcamenarsi quei giovani che non hanno voglia di lavorare. Quei giovani che non hanno alcuna sicurezza economica, che vivono nell’incertezza di un futuro fumoso, instabile e precario. Questa situazione non è inaccettabile solo per le condizioni in cui i giovani sono costretti a vivere, ovviamente peggiorata dalla retorica che tenta di affibbiare proprio a loro la colpa di un Paese decisamente poco ospitale per le nuove generazioni, ma è un bel problema anche per la salute e la stabilità della società stessa. Se i giovani non lavorano e non hanno stabilità, non contribuiranno all’economia né alla crescita demografica. Emigreranno oppure graveranno – loro malgrado – sui guadagni e sulle pensioni dei genitori. Pensioni che il sistema non sarà in grado di pagare se non si creerà nuovo lavoro.
Se per la narrazione dominante la pigrizia dei giovani che non hanno voglia di lavorare è la stessa che impedisce loro di impegnarsi, prendersi responsabilità e fare l’unica cosa utile alla società – figliare – la realtà, come dimostrato dai dati elencati, è molto diversa. Il problema, però, non resta solo dei giovani, vittime impotenti di un mondo che non li vuole, ma dell’intera società, che se priva i ragazzi del loro futuro, si gioca anche il proprio. Forse oggi i giovani non hanno voglia di lavorare a determinate condizioni, quelle che impediscono loro di essere indipendenti e autosufficienti, e quelle che non rispettano i diritti dei lavoratori. Eppure, molto spesso, sono costretti anche ad accettarli, quei lavori, perché non hanno scelta. Dopotutto, a non avere scelta, a non avere diritti, in questo mondo ci stiamo abituando. E questo è forse il dato più grave di tutti.