Nell’approcciarmi a scrivere queste righe su Allah99 di Hassan Blasim (Utopia, traduzione di Barbara Teresi), mi sono domandata più di una volta se un libro come questo si possa veramente recensire.
Una recensione, un pezzo d’opinione, chiamatelo come preferite, implica per sua definizione l’espressione di un giudizio o, quantomeno, rivela (pur nella totale volontà dello scrivente di rimanere imparziale) i meccanismi di pensiero, il filo del ragionamento personale e intimo che spinge inevitabilmente a trarre delle conclusioni, delle somme, su quanto si è letto. Mai come questa volta, avrei voluto ritardarlo, questo momento, respingerlo, resistergli. Trovo che il mondo contenuto dal romanzo di Blasim sia talmente vasto, complesso, vero e al contempo surreale, che condensarlo in parole che non siano le sue, in un contenitore e in una forma che non siano quelle da lui prescelte, sia usargli immeritata violenza.
In una cornice narrativa affatto solita, dimora una serie di interviste che il narratore sottopone a personaggi fittizi tra l’Egitto, la Siria, l’Iraq, le rotte migratorie, i paesi d’accoglienza. Si tratta di ritratti che sono al contempo autoritratto di chi narra, specchi che rimandano l’immagine di un’umanità sospesa e di una realtà folle. L’elemento surreale si accompagna in maniera indissolubilmente angosciante al sentimento perturbante. L’orrore nel quotidiano del Medio Oriente squassato dai conflitti e dalle lotte intestine è ovunque. E porta il lettore a domandarsi se, in un mondo di così incredibili differenze fra privilegio e miseria, di mura visibili e invisibili, di braccia armate che crivellano di proiettili, si fanno saltare in aria e costringono alla fuga e, dall’altro lato, inseguono, perseguitano, percuotono, stuprano o minacciano di stupro chi fugge, sia così inverosimile, così dissonante e surreale l’esistenza di una scuola di gatti nel centro di Baghdad, di cuochi che insaporiscono i piatti dei propri nemici politici con trito di scarafaggi, di Amleti robot, di artigiani che creano maschere umane realistiche per permettere ai parenti delle persone uccise negli attentati kamikaze di piangere un volto.
Alle interviste, il cui artificio è chiaro dalle continue incursioni, variazioni sul tema, riferimenti ad avvenimenti della vita privata dell’intervistatore, si alternano e si compenetrano altre forme espressive. Ci sono le lettere dell’amica traduttrice, che confessa al protagonista di volta in volta la propria difficoltà a esprimersi in un profluvio di citazioni e parole. L’incapacità espressiva che le impedisce di scrivere e tradurre come vorrebbe la porta a soffrire fisicamente, facendoci avanzare l’ipotesi che la negazione o la privazione della letteratura (prodotta o riprodotta) faccia male quanto la sottrazione o l’impossibilità di soddisfare un bisogno primario umano. Essere vivi non è veramente vivere: significa solo non essere morti, confida la traduttrice all’amico citando Cummings.
Altra forma narrativa adoperata è il monologo interiore, o forse sarebbe meglio dire dialogo, giacché il protagonista si rivolge sovente a Palomar, interlocutore immaginario e sua coscienza derivata dal legame profondo che il protagonista ha instaurato con l’opera di Italo Calvino. Non può certo trattarsi di un caso: anche il Palomar di Calvino, come l’Hassan di Allah99, è un osservatore del mondo e delle persone. Sul proprio personaggio, il celebre scrittore italiano disse: «La storia di Palomar può essere riassunta in due frasi: Un uomo si mette in marcia per raggiungere, passo a passo, la saggezza. Non è ancora arrivato». Il viaggio del protagonista calviniano è l’unico libro in possesso di Hassan al momento della traversata migratoria verso la Finlandia, l’unica sua compagnia. Non si tratta, nel suo caso, di una marcia per raggiungere la saggezza. Si rivelerà, però, una discesa nell’abisso della conoscenza delle atrocità che gli uomini compiono nei confronti di altri uomini.
I nomi di Dio, secondo la tradizione islamica, sono 99. In nessuna delle sue 99 declinazioni Dio compare all’interno del romanzo. Certo, viene più volte invocato e, quasi sempre, subito prima che le strade, le mani, i volti si macchino di sangue. È, la sua, un’assenza annunciata. Se essere vivi non è veramente vivere, Allah99 afferma con forza che i libri possono rendere vivi. Alla vita vera non ci si avvicina che a parole. Dio può essere chiamato con 99 parole diverse, cento meno uno, eppure, messe tutte in fila (come Blasim fa al principio di un episodio potentissimo intitolato 99 Svedesi) perdono di potenza, perdono di significato. Si svuotano in successione, una dopo l’altra, come una formula magica inerte, un noioso elenco di aggettivi. È con amaro sarcasmo, allora, che la collezione d’interviste dell’Hassan narratore restituisce, attraverso la letteratura, il soffio della vita solo ai fantasmi con un nome solo, le città evocate di un passato sepolto sotto il peso dei mezzi cingolati e i loro abitanti.