Cosa rende un telefilm avvincente per milioni di telespettatori? Quando un intreccio narrativo merita l’attenzione per cinque stagioni consecutive? Sono solo alcune delle domande che ci si può fare guardando How to get away with murder, la serie tv statunitense che ha rapito un numero notevole di utenti a partire dal 25 settembre 2014, quando ha debuttato su ABC (American Broadcasting Company), per poi conquistare solo pochi mesi dopo anche gli italiani su Fox.
I protagonisti del thriller giudiziario sono Annalise Keating – interpretata dall’attrice Viola Davis –, una feroce avvocatessa che appare senza scrupoli nella risoluzione dei propri casi, e cinque studenti della Middleton University di Philadelphia dove AK, come spesso la chiamano i suoi alunni, tiene un corso di diritto. I ragazzi collaborano con la professoressa nel suo studio, vengono coinvolti in casi complicati e spaventosi, e trascinati nella vita di Annalise, piena di misteri e segreti. Le loro esistenze diventano presto indissolubilmente connesse, ma è quasi impossibile spiegarsene il motivo. Emergono ricordi, avvenimenti passati, ognuno di loro sembra legato alla Keating in maniera definitiva. Gli errori di uno si ripercuotono sempre e indistintamente sugli altri, in un continuo cercare la serenità che la loro vita non ha più fin dalla prima stagione. Ciascuno deve fare i conti con i fantasmi che si porta dietro, i suoi segreti e le sue più oscure debolezze. La trama, quindi, si infittisce a ogni puntata di nuovi personaggi e di innumerevoli brutalità del sistema giudiziario americano contro cui bisogna battersi.
Una prima ipotesi è quella di supporre che la serie tv abbia così tanto successo perché affronta temi di enorme attualità, ossia non solo le ingiustizie e le contraddizioni in cui versa la giustizia statunitense, ma soprattutto questioni sociali come il diritto a un processo equo, le disuguaglianze razziali, le condizioni precarie di vita dei più deboli, degli emarginati e dei malati di mente. Limitandoci a un ambito territoriale americano e italiano, infatti, ci rendiamo conto che l’opinione pubblica affronta quotidianamente queste tematiche e che spesso lo fa muovendo le proprie dita su una tastiera, a colpo di commenti e di tweet, interessandosi molto poco o per nulla a dati reali e a storie di vita vissuta. O, almeno, è così nella maggior parte dei casi: l’America di Trump e l’Italia di Salvini ci mostrano brutalmente che molte delle questioni sociali più dibattute ci passano sotto il naso come se non fossero cose di cui doverci preoccupare, se non quando qualcuna di queste diventa lo strumento per incoraggiare e alimentare la guerra del più povero contro il più povero.
Allora, in una visione meno idilliaca e più verosimile, è l’esaltazione della violenza, della brutalità della vita che diventa quasi uno show, l’illusione che possano esserci Le regole del delitto perfetto, proprio come la traduzione che si fa del titolo della serie tv. Quasi come se non si trattasse più di vite vere, e spesso stroncate, ma solo di guerriglie, vendette, in un circolo senza fine. I telespettatori finiscono quasi sempre per tifare per i colpevoli perché questi trovino un modo per farla franca, perché oggi vince chi è più furbo. Un aspetto che ci riporta alla triste attualità. Non si tratta solo di un telefilm, infatti, ma della spasmodica ricerca di chi ci faccia sentire protetti, anche quando commettiamo i più atroci errori, anche quando le nostre leggerezze si ripercuotono gravemente sulle vite altrui. La cosa più importante resta quella di uscirne illesi, di trovare una giustificazione ai propri occhi e agli occhi degli altri. Ed è esattamente ciò che accade ad Annalise e ai suoi studenti: commettono errori, di cui molto spesso sono terzi a pagare le conseguenze, ma i telespettatori continueranno a fare il tifo per loro, ad attendere la violenza, la crudezza delle scene e anche la soddisfazione di chi la fa franca, pur essendo colpevole.
Certo, non è una dinamica propria esclusivamente del programma di cui parliamo, ma un risultato che possiamo ritrovare anche in altre serie tv di successo, tra cui House of Cards o La casa de Papel. Il pubblico fa il tifo per il cattivo, vuole che vinca e, soprattutto, vorrebbe essere al suo posto. Ritrova in lui la fonte del potere. Ma potente è chi è in grado di decidere non solo della propria vita, bensì anche di quella degli altri, è chi non si lascia condizionare dal sentire comune, dalla liceità dei propri comportamenti o dalla presunta illegalità delle proprie azioni. Presunta perché le scale di valori sono ormai rovesciate e non si sa più a cosa credere. Solo i potenti ci fanno sentire sicuri, per cui è a loro che finiamo per affidarci, tralasciando persino le nostre sensazioni.
Oggigiorno, il desiderio incessante di sicurezza e protezione permea la vita della maggior parte delle persone e nasce dalla paura. Dalla paura di dover decidere da sé, di assumersi le responsabilità delle proprie azioni, di guardarsi allo specchio e chiedersi cosa stiamo sbagliando. È la paura stessa a generare odio, violenza, sopraffazione e, infine, l’esaltazione di tutti questi sentimenti. Dunque chi è cattivo e se ne vanta è potente, ha coraggio e ci dà la conferma che non stiamo sbagliando, che non stiamo tifando per il concorrente errato.
Eppure, la serie tv ci mostra che tale meccanismo finisce con l’incrementare infiniti logorii interiori, riflessioni, in un continuo rimuginare sulla propria vita. Una cosa è salva: nessuno sfugge da se stesso. Anche il più cruento dei colpevoli si troverà a fare i conti con il proprio io, a scontare la propria pena, a cercare un motivo per andare avanti. E questo potrebbe essere l’altro: riemergono le questioni sociali, farsi del bene e curare se stessi, facendo del bene a chi ci circonda.
Che possa essere la soluzione anche per la brutalità che accompagna quotidianamente le nostre vite? Siamo certi che nessuno di noi potrà fare a meno di rifletterci alla prossima puntata di How to get away with murder. Nel mentre, restiamo sintonizzati per la sesta stagione!