Se si può etichettare l’arco degli anni recenti in qualche modo sul piano sociale e ideologico, tra le proposte più convincenti c’è sicuramente il termine politically correct.
Nelle campagne pubblicitarie e durante quelle elettorali, ma in generale nelle dichiarazioni di qualsiasi ente, azienda e personaggio in vista, basta una parola sbagliata, un comune modo di dire che possa urtare la sensibilità di qualsiasi soggetto o categoria, per finire nel mirino dei difensori di tutti e di nessuno.
Questa volta il linciaggio mediatico è toccato al famoso marchio di abbigliamento H&M per aver utilizzato, nelle foto di una felpa con su scritto Coolest monkey in the jungle (La scimmia più cool della giungla), un bambino di colore.
Tanto numerose le polemiche e le accuse rivolte al marchio svedese da costringerlo a eliminare quanto prima la foto che ha fatto scalpore. Siamo sinceramente dispiaciuti e non era nostra intenzione offendere nessuno con l’immagine stampata sulla nostra felpa. Crediamo fortemente nella diversità e nell’inclusione. Anche le scuse sono state immediate, a dimostrazione della buona fede di un brand che certamente non necessita di simili strategie per ottenere visibilità, per di più in un periodo in cui diviene sempre più difficile salvare la propria faccia da accuse nate da ogni tipo di perbenismo.
Sarà pur vero che spesso l’associazione alle scimmie è un’offesa a carattere razzista che non solo ferisce, ma è anche così antiquata che persino Charles Darwin sbufferebbe a sentirla. Tuttavia, di questa storia quello che davvero colpisce – o, almeno, dovrebbe – è che un bambino, probabilmente felice di posare per una marca di fama internazionale, abbia visto la sua immagine cancellata dal sito assistendo a commenti su possibili intenti razzisti e diffamatori, sentendosi parte di qualcosa che fino a poco prima poteva essergli sembrato un importante traguardo dei suoi giovani anni, un’esperienza divertente, da ripetere.
Adesso tutto quello che gli resta è il pensiero che in quella foto le persone non ci abbiano visto il suo volto, ma quello di una vittima che non esiste, un nero che non può indossare una felpa con l’appellativo monkey, perché si è deciso che si tratta di una combinazione non etica.
È ironico, se si pensa che tra i bambini di tantissimi Paesi anglofoni l’appellativo scimmietta per i più piccoli è un’usanza diffusa in ambito familiare priva di scopi denigratori, ma anzi a carattere puramente affettuoso. Su Twitter, ad esempio, qualcuno ha risposto alle polemiche affermando di usare spesso lo stesso termine con i propri figli.
Quello che per certe culture rappresenta la normalità e, nel caso specifico, un nomignolo amorevole, è stato deformato e sporcato dai razzisti prima, e dai moralisti poi, iniziatori, questi ultimi, di una vera e propria moda di difendere qualsiasi individuo e principio morale attaccando, allo stesso tempo, carnefici inconsapevoli senza alcuna pietà.
Addirittura, la madre del ragazzino in questione si è vista ricoperta di insulti (tra cui scimmia) dagli stessi indignati per aver spezzato una lancia a favore del colosso dell’abbigliamento.
Spesso è l’ostinatezza a vedere del marcio in ogni gesto e parola a ferire certe sensibilità, se si considera che sarebbe semplicemente bastato ignorare l’accaduto o, quantomeno, accettarlo come benevolo, per muovere un piccolo passo in direzione di una nuova, innocente percezione di una parola ingiustamente corrotta. E, invece, l’atteggiamento assunto in tale circostanza non ha fatto altro che aumentare le dimensioni di una barriera etnica sempre più impenetrabile.
In conclusione, l’evento ha assunto un’accezione razzista nel preciso momento in cui la pubblica opinione ha deciso che lo fosse.