Libertà di espressione, diritti delle donne, libertà di culto, discriminazione sistemica, interiorizzazione del sistema patriarcale, prevaricazione occidentale. Quando si parla di donne e religione e, soprattutto, di donne musulmane, si finisce per tirare in ballo ognuno di questi temi, ma raramente si riesce – se si riesce – a trovare un equilibrio tra le parti. Quando l’oggetto di discussione sono le donne e il velo che portano in testa, l’abitudine di fare due pesi e due misure riemerge insistentemente, ma nessuno pare accorgersi che vietare l’hijab non è tanto diverso da imporlo.
Nelle ultime settimane, la Francia è stata protagonista di un’autentica rivolta sul web, scatenata in seguito alla votazione del Senato in favore di una legge che vieterebbe l’utilizzo dell’hijab alle ragazze minorenni e alle madri che accompagnano i figli in gita scolastica. La legge non è ancora stata approvata dall’Assemblea Nazionale ed è probabile che non passi, ma la sua formulazione è figlia dell’impostazione francese che da anni sembra perseguitare la libertà di culto. La proposta è stata accolta dal web con il nome di Hijab ban e, sebbene non sia una novità il divieto di ostentare simboli religiosi nelle scuole che in Francia colpisce principalmente i musulmani, la notizia è stata utile per riaccendere il dibattito sulla libertà di culto e sui diritti delle donne.
Che le religioni siano espressione delle società in cui sono nate è ormai risaputo, così come è chiaro che se un credo è stato coltivato all’interno di un’intollerante società patriarcale, anch’esso si rivelerà tale. Eppure, ciò di cui si parla riguarda tutte le religioni. Basta prendere ad esempio i principali monoteismi per rendersi conto che in numerosi aspetti sono molto simili, sebbene si rivolgano a dei diversi: è normale che sia così, considerando le società in cui si sono sviluppati, ma la consapevolezza e la giusta contestualizzazione possono permettere a ognuno di vivere la fede come ritiene più opportuno. E la libertà di culto deve essere rispettata tanto quanto il principio di laicità dello Stato.
In Francia, la scarsa tolleranza nei confronti della minoranza musulmana non è mai stata un gran mistero. In Europa, circa il 5% della popolazione è composto da persone musulmane, ma dei 19 milioni che abitano l’Unione, 5 sono concentrati in terra francofona. Il Paese ha sempre mostrato di avere particolarmente a cuore la laicità dello Stato e la separazione tra potere temporale e potere spirituale. Noi, che in Italia ancora siamo influenzati da una morale religiosa di cui anche le leggi difficilmente si spogliano, non possiamo che apprezzare il tentativo di essere liberi dalla guida della fede. Eppure, in un contesto in cui si registra estrema intolleranza nei confronti di una specifica minoranza religiosa, certi provvedimenti sembrano nascondere, dietro la ricerca di laicità, il sapore dell’islamofobia.
Sono state numerose le leggi e le restrizioni che, prima del non ancora approvato Hijab ban, hanno creato un’immagine intollerante delle istituzioni francesi. Già la legge del 3 marzo 2004, che impone la laicità delle scuole, ha subito numerose critiche poiché, sebbene si rivolga indistintamente a tutte le religioni e impedisca di ostentarne i simboli, essa finisce inevitabilmente per danneggiare soprattutto i musulmani, poiché difficilmente cristiani ed ebrei indossano quotidianamente i simboli della propria fede. Il problema non è, certamente, solo francese. Anche in Italia si è tentato di limitare l’uso del burkini nelle piscine pubbliche, in Svizzera è vietato l’uso dell’hijab nei luoghi pubblici e numerose controversie su questi temi sono avvenute quasi ovunque in Europa. Alle leggi più o meno opprimenti all’interno dell’UE si unisce un’intolleranza generale nei confronti dei musulmani che ha radici culturali profonde.
Alla base dell’opposizione alla libertà di culto dei musulmani e, soprattutto, dell’accanimento contro il velo, pare sempre porsi la libertà delle donne. La narrazione di una religione opprimente che nasconde le donne e le schiavizza è la stessa che, dopo il 2001, ha tentato di giustificare l’accanimento occidentale nei confronti dei musulmani. Dopotutto, la stessa guerra in Afghanistan è stata più volte legittimata al grido della liberazione delle donne dal burqa. Ma, se è vero che in alcuni luoghi del mondo la religione è utilizzata per opprimere i diritti delle donne, ciò che non sembra troppo chiaro è che non è la religione in sé il problema, ma la sua imposizione. Già solo partire da questo presupposto basterebbe per rendersi conto che nei paesi liberi, in cui la religione non può essere imposta, ognuno è libero di viverla come crede, seguirne o meno i dettami e dunque indossare o meno il velo. Dopotutto, delle donne musulmane che abitano l’Europa, alcune indossano il velo e altre no, proprio perché libere di scegliere.
In seguito alla notizia della legge passata al Senato, numerosi attivisti si sono indignati dell’ulteriore prevaricazione delle libertà. Le critiche giungono, in effetti, su due fronti diversi. Il primo riguarda l’intolleranza religiosa e l’islamofobia che abita l’Occidente. Quella prevaricazione che considera le religioni altrui come retrograde e sessiste, discrimina ipocritamente le fedi altrui e ne impedisce il culto, sebbene in quanto a oppressione femminile nessuna religione sia salva – eppure nessuno vieta alle suore di indossare il proprio velo, giusto?
Esattamente come accade per i culti nostrani, allora, sebbene certi simboli rimandino a significati oppressivi, ogni donna è libera di scegliere se seguirli o meno. Se ogni cattolica può scegliere se indossare il velo al proprio matrimonio, non c’è ragione per cui una musulmana non possa scegliere di indossare o meno l’hijab. E, anzi, solo perché in alcuni luoghi la religione è imposta, non significa che essa non possa essere libera altrove. Dunque, alla base delle restrizioni alla libertà di culto – la quale, tra l’altro, è tutelata dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea – non c’è davvero la tutela della laicità o dei diritti delle donne, ma una buona dosa di prevaricazione occidentale, intransigente discriminazione e qualche eco del non poi così lontano colonialismo, che resta evidente nella tendenza di una certa parte di mondo di imporre la propria cultura ovunque, ricordando più le crociate che la globalizzazione.
La seconda critica mossa in seguito alla votazione riguarda, invece, il rispetto dei diritti e della libertà delle donne. Se, come detto, in Francia – e in Italia e in Europa – la religione non può essere imposta, ma è una scelta, allora le donne che scelgono di indossare l’hijab non sono prive di libertà, né sottomesse, né, come tanti provano a sostenere, hanno interiorizzato l’oppressione e non vi fanno caso. È facile giungere a deduzioni affrettate dall’alto dei piedistalli autoprodotti ed è facile per un occidentale – che sia cattolico praticante o ateo, perché il cristianesimo inevitabilmente influenza tutta la nostra cultura – dire che una musulmana sia totalmente inconsapevole tanto è elevato il livello di oppressione metabolizzata raggiunto. Ma proprio perché la scarsa conoscenza degenera fin troppo spesso in inconsapevole ipocrisia, lasciamo che sia chi ne sa a spiegare perché non è così.
Secondo Samina Ali, attivista americana musulmana per i diritti delle donne, l’origine del velo islamico non ha alcun significato opprimente ed è, invece, simbolo di libertà. Nella sua illuminante spiegazione, chiarisce che il gesto di coprire il capo non aveva a che fare, in principio, con quello di nascondere il corpo delle donne, tant’è che in origine coloro che lo indossavano avevano il seno scoperto. In più, spiega che nel Corano non c’è l’obbligo di indossare il velo e anzi lo stesso testo raccomanda che l’abbigliamento sia conforme alla società in cui si vive. La fede che ci sembra tanto opprimente professa, in realtà, che nessuno sia mai forzato a credere o a indossare determinati simboli.
È importante chiarire il punto di vista dei musulmani e, soprattutto, delle donne musulmane che ogni giorno scelgono di indossare o meno un simbolo religioso, perché è necessario conoscere per giudicare. È indubbio che, nel corso del tempo, la religione si sia evoluta e abbia assunto le intransigenti sembianze patriarcali, le stesse che tutte le religioni hanno assunto nel corso dei secoli. Ma, finalmente spogli di quelle strutture, è possibile vivere qualunque fede prescindendo dai preconcetti sociali.
Dunque, il divieto di indossare l’hijab nelle scuole e per tutte le minorenni offende la libertà e l’autodeterminazione delle donne in due modi diversi. Da un lato, si presuppone la loro totale inconsapevolezza riguardo le proprie decisioni, sminuendone la volontà. Dall’altro, per salvarle da quell’indumento che in alcuni luoghi è imposto, si impone di non indossarlo. Un apparente paradosso che in realtà è il perfetto risultato delle nostre società ancora intrinsecamente maschiliste, dalla stessa matrice di quello che in Afghanistan copre ogni lembo di pelle con i burqua: alle donne è negata la libertà di disporre del proprio corpo, di coprirlo e di scoprirlo come meglio credono. Non sorprende, allora, che l’hijab sia diventato un simbolo politico e che molte donne, anche non musulmane, talvolta lo indossino per affermare la propria posizione. E il paradosso giunge proprio qui, poiché se l’utilizzo del velo come simbolo religioso è vietato, è permesso indossarlo se rappresenta altro, come un capo d’abbigliamento di moda o un segno politico. Insomma, le donne musulmane non possono indossarlo, ma quelle di qualunque altra religione sì.
È chiaro che quello compreso tra laicità e religione e quello tra libertà e oppressione sia un terreno scivoloso e in cui non sempre è facile notare i confini. Anzi, il giusto equilibrio tra uno Stato realmente laico e uno che non impedisca la libertà di culto è estremamente difficile da raggiungere, proprio perché le società, le usanze e le religioni sono segnate da millenni di evoluzione, da secoli di preconcetti e da dinamiche che sono state impari sin dall’alba dei tempi. Eppure, seppur si tratti di un equilibrio difficile da raggiungere, non per questo non andrebbe tentato il suo perseguimento, fino a raggiungere quel per ora utopico mondo in cui ognuno è libero e nessuno è oppresso.