Quando Guy Debord scrisse La società dello spettacolo, nel 1967, denunciando il sempre più pervasivo controllo esercitato dai mezzi di comunicazione di massa e la trasformazione dei lavoratori in consumatori nel sistema economico capitalista, il suo saggio divenne presto un libro di culto, profetico annuncio dell’avvento di una società nella quale la produzione principale sarebbe stata lo spettacolo: la realtà immateriale sostituiva quella materiale e diventava una merce da consumare per il cittadino spettatore e consumatore, che oggi potremmo definire, più ampiamente, utente dei servizi prodotti dal sistema economico-finanziario e sociale nel quale vive o, meglio ancora, è messa in scena la sua vita quotidiana.
Il filosofo, sociologo, scrittore e cineasta francese, nato a Parigi nel 1931, aderì appena ventenne alle avanguardie artistiche e letterarie, in particolare al Dadaismo e al Surrealismo, e dalla metà del Novecento fece parte dell’ala radicale del Lettrismo, un movimento culturale nato negli anni Quaranta, grazie a Isidore Isou, intellettuale francese di origine rumena, poeta e scrittore di teatro e cinema, che intendeva rinunciare all’uso delle parole in favore della comunicazione affidata alla poesia, ai suoni e alla musicalità dell’argomentazione discorsiva. Il giovane Debord lasciò il movimento, in seguito, per costituire l’Internazionale Lettrista nel 1952 e, cinque anni dopo, partecipò alla fondazione dell’Internazionale Situazionista, che raggruppava diversi movimenti artistici europei per teorizzare una critica radicale della società capitalistica e dell’industria culturale.
In campo cinematografico, Debord realizzò alcuni lungometraggi e cortometraggi, tra gli anni Cinquanta e Settanta, e nel 1988 scrisse i Commentari alla società dello spettacolo per rendere conto del fatto che la spettacolarità era diventata un fenomeno integrale che andava perfino al di là delle differenze ideologiche incarnate dal duopolio politico URSS-USA dominante sulla scena mondiale: nella nazione sovietica vigeva lo spettacolo concentrato del totalitarismo, mentre negli States c’era lo spettacolo diffuso della società consumistica.
Il viaggio teorico, letterario e artistico dell’autore francese, nato anti-accademico e diventato, comunque, di culto continuerà ad alimentare nei decenni successivi la discussione sulla natura e i limiti dell’arte e della vita contemporanea, ma quello personale si fermerà per sempre nel 1994, con un colpo di pistola con il quale Debord metterà fine alla sua esistenza.
Pur partendo, in effetti, dalle riflessioni marxiste sull’alienazione e reificazione presenti nella società dominata dal sistema capitalista, la ricerca teorica debordiana analizza lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa che assumono un ruolo sempre più centrale per edificare il consumismo e segnano un salto di qualità negativo del carattere anti-umanistico della società moderna. I risultati sono lo scadimento delle relazioni umane dominate dall’avere più che dall’essere, che nel tempo della contemporaneità viene sostituito dall’apparire. L’oppressione capitalista sposta il suo dominio dall’ossessione della produzione e del consumo delle merci allo spettacolo, vale a dire un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini, responsabile della perdita delle caratteristiche personali e creative a favore della passività, con l’individuo che assiste impotente a quella inversione dei mezzi con i fini, dove l’economia diventa il fine societario e la vita degli uomini, delle donne e il benessere collettivo si trasformano in strumenti – risorse umane, clienti, utenti – che servono per far funzionare il sistema della continua produzione, commercializzazione e consumo delle merci e della loro rappresentazione. Anzi, nella società contemporanea sia il mezzo sia il fine del modo di produzione si sovrappongono e l’inversione immateriale e spettacolare diventa realtà.
Il situazionismo di Debord, invece, si propone di recuperare le istanze fondamentali dell’esperienza personale con le modalità dell’arte e dell’aggregazione culturale perché gli esseri umani riprendano parte attiva all’agire individuale e comunitario. Per farlo, il filosofo francese si rifà alla radicale critica artistica delle avanguardie del secolo scorso che rifiutavano l’espressione tradizionale dell’arte borghese. Il superamento di quest’ultima poteva essere affidata, secondo il situazionismo, alla psicogeografia, che studia i limiti e gli effetti che l’ambiente geografico esercita sul comportamento, all’urbanesimo unitario, inteso come superamento dell’aggregazione urbana capitalista e funzionale al controllo sociale del potere, e il détournement, vale a dire la riscrittura e riappropriazione di un testo per il superamento di quell’arte ormai schiava della comunicazione immediata presente nella società moderna dove lo spettacolo è il capitale a un tale grado di accumulazione da divenire immagine.
La società dello spettacolo di cui ci parla Debord, insomma, è l’odierno e onnicomprensivo sistema di produzione e consumo delle immagini funzionali alla grande mistificazione che esprime, legittima e sorregge i rapporti di produzione e di potere vigenti in cui il lavoratore si è trasformato in consumatore, perfino nel suo tempo libero, di nome ma non di fatto, perché anch’esso servo della logica dei bisogni indotti e del loro confezionamento standardizzato, e in tutti gli altri aspetti dell’esistenza quotidiana.